03 febbraio 2023

«Daimon, l’ultimo canto di John Keats» di Paolo Vanacore


Roma, Teatro Lo Spazio
2 febbraio 2023

SE PER KEATS LA BELLEZZA È VERITÀ, PER HILLMAN LA BELLEZZA DIVENTA AMORE

La terra è cattiva perché è priva di amore e di felicità. La vita è transitoria, ma non l’amore che la riveste. Non importa quanto si vive su questa terra, ma è fondamentale sapere quanto abbiamo amato. Perché soltanto l’amore che doniamo e che riceviamo ci avvicina alla bellezza. James Hillman, dopo anni di studi e approfondimenti psicoanalitici, ha deciso di stare dalla parte della bellezza; infatti, un giorno, senza neanche rifletterci troppo, trovò a conforto delle sue nuove teorie alcuni versi di John Keats: «Bellezza è verità, verità è bellezza, questo solo sulla terra sapete, ed è quanto basta».

Paolo Vanacore, dopo il frizzante e divertente «Grande Grabski» dell’ottobre scorso, torna a scrivere un testo teatrale basato sulla psicoanalisi, e dalla sua penna è nato Daimon, l’ultimo canto di John Keats. Un lavoro completamente diverso dal precedente; più profondo, più colto e intellettualmente più raffinato: meglio identificabile come uno studio sbocciato da una ferita dell’anima. Perché di anima si tratta: anima nell’essenza, anima nella ricerca e anima in quella fine che mai sarà.

In scena quell’anima, sotto forma di un allegro bambino, prende parola per chiamare la mamma: è il piccolo James Hillman che comincia a raccontare la sua storia. Per chi non lo conoscesse diciamo brevemente che nel 1959 Hillman ottenne un dottorato di ricerca in Psicoanalisi col massimo dei voti; studioso di Jung, ne seguì le orme fino a quando iniziò a valutare altre teorie più personali: «Nasciamo con un carattere; ci viene dato, è un dono dei guardiani della nostra nascita». E, guardiano della nascita è il Daimon, un demone. Che non è la figura luciferina dell’inferno cristiano che preti incolti ci hanno trasmesso durante le lezioni di catechismo, ma, secondo più antiche dottrine filosofiche, è un’entità che funge da intermediario tra l’uomo e il divino. È questo demone che ci forgia il carattere e poi ci spinge ad entrare nel mondo con una vocazione.

James Hillman, superbamente interpretato da Gianni De Feo, a 8 anni incontra per la prima volta il suo Daimon, un bambino di nome John (un caso stabilito dal destino?) che gli rivela la sua diversa sensibilità. Hillman è nato in riva al mare, l’immenso Atlantico che bagna le coste del New Jersey, e vive in un albergo gestito dai suoi familiari, ma guardando una cartina geografica, grazie a quella sensibilità «diversa», intuisce che la sua vocazione sarà altrove. Quindi confessa di aver rivisto il suo Daimon dopo un lustro facendo la conoscenza dei propri sogni che sono essenze fatte di immagini, ma prive della concezione del tempo: un annuncio molto simile a quello che la morte dovrebbe trasmettere quando si sta impossessando del corpo.

A questo punto, come in una dissolvenza incrociata, subentra il «fare anima» che lo psicologo riconosce nel grande poeta John Keats, nel quale Hillman si rispecchia, riconoscendo in quell’anima romantica, e nelle sue enormi potenzialità, qualcosa di diverso dall’intelletto che guida le nostre scelte, le nostre gioie e i nostri dolori. Ogni sentimento che Keats, morto a soli 26 anni, è riuscito a tradurre in versi è, per Hillman, «fare anima», ossia approfondire la comprensione di se stessi, al fine di acquisire una propria unica identità nel mondo che ci circonda. Poesia come comprensione dell’io e creazione di immagini (i già citati sogni) che la nostra sensibilità contiene.

Teatralmente lo spettacolo, pur se trattandosi di un monologo e con una scena molto elementare, risulta abbastanza sofisticato. Sul fondo si proiettano su uno schermo le colorate opere pittoriche di Roberto Rinaldi, che però seguono un percorso parallelo alla narrazione, senza mai intralciare la parola, anzi potrebbero rappresentare quelle immagini astratte evocate dai sogni. Ben diversa l’operazione musicale: che inizialmente definisce l’epoca delle grandi orchestre americane, da Glenn Miller a Artie Shaw, poi, grazie ai gentili ritocchi di Alessandro Panatteri, contribuisce anch’essa nel «fare anima» attraverso le atmosfere create dalle canzoni di Franco Battiato, che, riesumate musicalmente dalla loro monotona mestizia, e cantate finalmente con voce che nasce dal diaframma allenato di un artista di teatro, prendono persino una consistenza poetica fino ad oggi riservata soltanto a fortunati eletti.

Sulle ultime note musicali Hillman confessa di essere tornato più volte a Roma, dove Keats morì nel 1821, e racconta di essersi spinto fino al cimitero acattolico ai piedi della Piramide Cestia, dove il poeta è seppellito e sulla cui lapide è scritto «Qui giace un uomo il cui nome è scritto sull’acqua». In un momento di contemplazione Hillman sembra sorridere prima di sussurrare, in una delicata dichiarazione d’amore, che anche il suo nome, molti anni prima, fu scritto sulla sabbia. Ma – come rivelò Oscar Wilde – solo il tuo resisterà.

Tuttavia, tra il pubblico, non resiste la curiosità di colui che non si lascia trascinare fino in fondo dal romanticismo del poeta inglese, ma resta piuttosto ancorato alla verità della sua bellezza: in un testo che nel titolo contiene il nome di John Keats, ci si aspetta di ascoltare le parole di Keats. Invece, dopo qualche minuto ci si accorge che il personaggio che ci sta narrando la sua storia non è il piccolo John, ma un suo alter ego che vive in epoca più recente ma non si sa chi sia. L’arcano verrà chiarito al finale, ma durante tutto il racconto la curiosità di sapere chi sia questo Carneade distrae dalla narrazione stessa. E ci si perde qualche passaggio. Soprattutto quelli meno evidenti. Infatti, l’altra domanda che si pone lo spettatore attento che ha appena saputo che si tratta di James Hillman è: ma per quale motivo uno psicologo junghiano dovrebbe cantare Battiato? (fn)
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Daimon, l’ultimo canto di John Keats di Paolo Vanacore. Diretto e interpretato da Gianni De Feo

Foto: Gianni De Feo (© ???)

Pubblicato anche su Quarta Parete il 3/2/23

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