CABRA ILLUMINA USEPPE CON LA MAGIA DEL TEATRO
Spettacolo emozionante, per la qualità del testo e per l’audace messa in scena. Certamente onore al merito dei tre fantastici interpreti, subito menzionati con lode: Franca Penone, Alberto Onofrietti, Francesco Sferrazza Papa. Ma soprattutto onore al coraggio di Fausto Cabra, regista, che porta in teatro uno dei romanzi più struggenti della letteratura italiana, allestendolo (in versione ridotta da Marco Archetti) così come è scritto, senza dialoghi teatrali, ma lasciandolo al suo linguaggio raffinato e poetico. Proprio com’era la sensibilità di Elsa Morante.
L’operazione ricorda quella che molti anni fa Luca Ronconi fece con il capolavoro di Gadda («Quer pasticciaccio brutto de via Merulana»): prendere un romanzo e distenderlo abilmente sulle voci degli attori; ma all’epoca, era 1996, il teatro nostrano navigava, come al solito, in un mare tempestoso che però, a rivederlo oggi, potrebbe somigliare vagamente alla superficie di un lago in una quieta giornata di sole primaverile. Ronconi, allora regista meritatamente privilegiato, infatti, poteva contare su una compagnia di 50 attori, su una scena colossale (dove addirittura veniva giù la facciata di un palazzo), e su una équipe tecnica di oltre 15 elementi. Altri tempi, altro Stabile, altro teatro!
Ecco perché trovo coraggiosa, ardita, e forse anche provocatoria – giustamente provocatoria – l’iniziativa di Cabra. Il quale, con l’aiuto della sola fantasia teatrale, è riuscito a ricreare le emozioni della storia di Ida, Useppe e Nino, e di tutto il popolo romano dei quartieri bombardati durante gli attacchi tedeschi della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, in scena vivono anche molti altri personaggi del racconto: il soldato Gunther che apre il romanzo, il padre di Ida, Carlo Vivaldi (alias Davide Segre), Celeste Di Segni, tutti affidati alla duttilità attoriale dei tre interpreti, che cambiando atteggiamento e interpretazione passano da una personalità all’altra con disincantata agilità.
La storia della Morante è un romanzo e non è questa la pagina per recensire un lavoro letterario del 1974, già abbondantemente acclamato dal mondo intero, per cui la nostra analisi sarà prettamente teatrale. Dunque, abbiamo detto: tre attori, una pedana appena inclinata, sopra la quale una struttura metallica regge il peso dei proiettori, una panchina a sinistra e un materasso, un tavolino e qualche sedia che al momento opportuno vengono sistemati per approntare la stanzetta di Ida a San Lorenzo o la casa di Testaccio dove sopravvivono in tanti. Il palcoscenico è completamente aperto sui lati per cui gli attori sono sempre a vista, anche se non recitano: così quando il tedesco chiede a Ida «fare amore?», l’attore che interpreta il figlio Nino è lì a pochi passi ad osservare con indifferenza la simulazione di quella «violenza» che la madre subisce con gioia e stupore. Ciò accade quando il teatro, proprio come una puttana, svela il fascino della finzione. E mentre le parole del romanzo vengono accompagnate dai due attori su un lato della pedana, l’altro che non partecipa all’azione, in penombra, sistema sul lato opposto qualche mobile per la scena successiva. Fin qui il racconto scenico potrebbe ricordare una romantica rivisitazione dell’antico carro di Tespi, senza le ruote, naturalmente. Carrozzoni che, anche durante l’ultima guerra, girovagavano per le province e i paesini della penisola: quando ancora un manipolo di guitti riusciva a gestire l’impresa nomade, per conquistare almeno un pasto quotidiano, immedesimandosi nei rispettivi ruoli da interpretare, ma all’occorrenza diventando autori, apparatori, disegnatori, falegnami, trovarobe e, le donne, sarte.
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