LEONARDO LIDI PORTA IN PANCHINA UN GABBIANO SENZ’ANIMA
Le rappresentazioni teatrali dell’ultimo decennio ci hanno abituato a godere sempre meno della scenografia. La scelta di togliere prima il mobilio, poi i fondali, poi le quinte, fino a ridurre all’osso la messa in scena è conseguenza della miseria in cui versa il teatro. Obbiettivamente avere una scenografia significa accollarsi parecchi costi: per idearla, per costruirla, per trasportarla e per montarla e smontarla da un teatro all’altro. Motivo, questo, che spinge le produzioni anche a non stampare più le locandine, cosicché nelle piccole brochure (quando ci sono!) si viene a sapere chi è il regista, chi è il datore luci, chi è l’assistente, ma il nome del protagonista si confonde in un elenco di attori quasi mai individuabili. E che fatica, ieri sera, riuscire a reperire la sacrosanta distribuzione con la lista degli interpreti accanto ai personaggi!
Dicevamo del palcoscenico vuoto e sfondato sui lati dove s’è svolto il dramma più simbolico della produzione cechoviana. Che il Gabbiano sia la commedia dove tutto è simbolo, lo dichiara Anton Cechov nel titolo stesso. Quando, però, in palcoscenico il simbolismo fa a meno dei simboli solitamente si assiste a una commedia in prova: una sola panchina in proscenio, qualche sedia dietro la pedana illuminata per far sedere gli attori che attendono l’entrata, poi un quaderno per gli appunti, un libro, un mazzo di fiori, un fazzoletto e una pistola. Tutto qui il simbolismo? Mi pare un po’ poco, anche se, in verità, il simbolismo dovrebbe essere ben altro! Ma non se n’è riscontrata traccia. Che senso ha, per esempio, il suicidio di Kostia se sua madre in quel momento non è impegnata futilmente a giocare a tombola?
Proprio il protagonista, al finale, a proposito di drammaturgia dice: «Mi sono convinto che non ci si debba preoccupare di stili vecchi o moderni, bisogna scrivere semplicemente, senza badare a queste sciocchezze, per liberare il cuore.» Purtroppo nel «Gabbiano» di Leonardo Lidi, togliendo agli interpreti ogni appiglio simbolico è venuto a mancare il loro mondo, e di conseguenza il cuore – il linguaggio del cuore – che è «semplicemente» il linguaggio di Cechov. Impalpabile elemento vocale, quest’ultimo, di fondamentale importanza, senza il quale gli attori sembravano vagare in scena privi di logica sentimentale; anime disperse, pareva che non sapessero dove andare, cosa fare; immersi in un vuoto, erano sospinti da quello stesso fiato dove sono castigati Paolo e Francesca, «che di qua, di là, di giù, di su li mena». Loro unica salvezza era conquistare un posto in panchina che, diventando di primaria necessità, ha perso ogni valore superfluo e simbolico (che è l’essenza del teatro di Cechov).
La prima causa, forse evitabile, che ha fatto venir meno «il linguaggio del cuore» è da rintracciare nell’eccessivo volume dei microfoni, che hanno appiattito ogni tentativo di recitazione. Le voci provenivano tutte solo dalla bocca delle casse e non dagli attori, per cui quando in scena c’erano più personaggi si stentava a capire chi stesse parlando. Eppure, l’acustica del teatro Vascello non meriterebbe d’essere mortificata da tanti decibel!
La seconda causa è determinata dai tagli che Lidi ha eseguito al testo non considerando un netto sbilanciamento nei ruoli che pendeva perlopiù dalla parte di Trigorin, il quale si ritrova al centro di una vicenda molto più semplice e trainante dell’intima tragedia che invece vive Konstantin, anima dannata.
Causa terza, che è la più grave e importante, è l’interpretazione del protagonista: fredda e monotona, senza un brivido di sentimento né di rabbia né d’amore, né diderottiano né stanislaskijano; eppure, il suo stesso personaggio dice di essere «un maledetto». Non dovrebbe passare inosservato che Cechov scrisse il «Gabbiano» nel 1895, un anno dopo aver trascorso un lungo periodo tra Genova e Nizza, dove l’eco dei «poeti maledetti» era ancora potentissima. E in Konstantin G. Treplev, l’autore volle trasferire tutto il suo raffinato senso maudit, la disperazione per la sua malattia, la vanità della vita, l’angoscia per quel desiderio di scrittura teatrale che ancora non riusciva a mettere a fuoco. Purtroppo Christian La Rosa ha portato in palcoscenico non un personaggio cechoviano affannato d’amore e dal mal di vivere, ma un mesto impiegato di Gogol.
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