VARIAZIONI TEATRALI PER PIANOFORTE E SUICIDIO
Può un’esecuzione al pianoforte uccidere una persona? Può una parola colpire a morte un amico? Ad ascoltare il racconto di Thomas Bernhard, una simile tragedia è possibile. L’opera musicale in questione è la BWV 988 di Johann S. Bach, conosciuta meglio col nome di Variazioni Goldberg; la parola è Il soccombente utilizzata come fosse un soprannome, che dà il titolo al romanzo-monologo (Adelphi, 1983), ridotto per il palcoscenico da Ruggero Cappuccio. In scena, una piramide luminosa, ispirata alla tomba di Maria Cristina d’Austria, fa da cornice funebre a un pianoforte a coda, simbolo del più alto valore artistico. Attorno tre personaggi, anzi forse uno soltanto, un narratore che racconta una storia, assai contorta e densa di sfumature psicologiche, di tre amici che insieme hanno condiviso un corso per pianoforte tenuto da Vladimir Horowitz a Salisburgo: uno è lui, unico sopravvissuto, l’altro è Wertheimer, il soccombente, e il terzo è Glenn Gould, il più eccelso virtuoso della tastiera del secolo scorso. Continueranno a frequentarsi anche in seguito e trascorreranno periodi insieme, a casa di Gould abituato a convivere ormai solo con Bach.
Da questa considerazione comincia a prendere consistenza l’intima tragedia di Wertheimer, il più debole dei tre, il quale, dopo aver ascoltato le Variazioni suonate da Glenn, entra nella «trappola mortale della sua vita». E quando l’altro si accorge del cambiamento che il povero Wertheimer ha verso lo strumento lo definisce un soccombente. Pronuncia quella parola ad alta voce, normalmente, senza preconcetti, non accorgendosi che sta annientando la vita di un suo amico.
Tra Wertheimer e il personaggio narrante nasce un’intensa dialettica che abbraccia profonde introspettive dell’animo umano: il dramma del non riuscire a comprendere la realtà che ci circonda, quindi le insicurezze che crescono, i complessi; la necessità di amare e di essere amati, ma anche quella di essere liberi di detestare qualcuno o qualcosa (sembra che Gould odiasse la Svizzera, oltre al suo pubblico; l’altro, il pianoforte e la musica, tanto da preferire uno strumento completamente scordato). Si parla, naturalmente della follia degli uomini («E Glenn era il più lucido di tutti i folli!»); dell’infelicità che potrebbe essere la base della felicità; ma soprattutto si evoca la morte. La morte naturale, come quella che ha colto Gould a 51 anni con un ictus, e del suicidio, come Wertheimer ha scelto di farla finita, anche lui a 51 anni, ventotto anni dopo che Glenn gli disse di essere un soccombente. E chissà se impiccandosi Wertheimer abbia cercato di centrare il suo obbiettivo per scongiurare quel nomignolo. Se così fosse, in realtà, sarebbe l’unico ad aver volontariamente raggiunto lo scopo definitivo.
Il cerchio sembra chiudersi, ma non si chiuderà mai. Resta lui, il terzo uomo, vivo e ormai solo, a raccontarci le ragioni per cui la sorella (la soave voce di Francesca Gabucci) di Wertheimer fosse così invischiata in questa storia, ma in realtà è soltanto apparenza, perché Wertheimer (Martino D’Amico) ammirava talmente tanto Glenn Gould che ha cercato di imitarlo seguendolo nella fine.
Foto (© Giusva Cennamo)