GIORGIA METTE IN RIDICOLO IL SUO STUPRATORE
In un momento storico in cui il teatro è abbastanza attento e sensibile agli accadimenti di cronaca quotidiana, che purtroppo continuano a ripetersi con un ritmo impressionante, il mestiere di giornalista, anche se in qualità di «corrispondente» dai più nascosti e caratteristici palcoscenici cittadini, non può eludere dal considerare i tragici episodi che scuotono ogni giorno le nostre coscienze. Ed è naturale che l’angoscia del delitto di Giulia Cecchettin sia entrato insieme con tutti noi nelle grotte del testaccino teatro dei Documenti. Non so se sia cosa giusta o meno, ma è successo: è bastato il nome di Dacia Maraini, che sempre si è battuta per le cause femminili, autrice del testo portato in scena da Silvia Siravo, ad alimentare il senso di appartenenza alla tragedia e di solidarietà per le tante vittime di violenza.
«Lo stupratore premuroso» è il titolo del racconto che ha dato vita all’allestimento di Giorgia (l’adattamento per la scena è della stessa autrice) e narra, come se ne può dedurre, della violenza sessuale che subisce una ragazza in viaggio a Siviglia. Lei è in ritardo, deve correre in aeroporto per non perdere il volo che la riporterà a casa; ma un banale contrattempo la spinge ad accettare un passaggio in macchina da un tipo che assomiglia a un carabiniere, apparentemente gentile, premuroso (appunto!), ha una divisa con due stellette, la pistola in vista, e un comportamento da galantuomo: le apre perfino lo sportello della macchina per farla accomodare. Sorride sereno, e forse è proprio quel sorriso l’arma più convincente per carpire la fiducia di Giorgia. Poi, una volta giunti in aperta campagna, il cauto dottor Jekyll si trasforma in Mr. Hyde e la tragedia si consuma. Giorgia, devastata moralmente, illividita e sporca di sangue, si trova poi a dover affrontare anche le assurde domande della polizia a cui si è rivolta per denunciare l’accaduto e trovare in loro quella comprensione necessaria che le restituirebbe un minimo di conforto. Ma niente, nemmeno quello!
Silvia Siravo, impegnata nella sua prima regia, remando con astuzia controcorrente, costruisce, intorno al personaggio violato, un’aria dai contorni assai sarcastici e con sfumature che ricordano i fumetti. Il ring, dove comincia l’ultimo felice atto della vacanza in Andalusia, diventa poi la campagna infiorata, teatro dell’aggressione. In scena alcuni oggetti stravaganti (ma essenziali) formano la cornice della storia, modellandola a propria immagine e somiglianza e sempre in un contesto leggero, quasi da giardino dell’infanzia, dove, per fortuna, i sogni sono più forti degli incubi; un luogo mai appesantito dalle solite cupe tradizionali rappresentazioni del male.
L’apparato scenico è fortemente indicativo: spregiudicato e irriverente nei confronti del crimine. Il male c’è – ormai non è più una novità – e l’interpretazione, intensa ma distaccata, della Siravo allontana disonore e sofferenza dal proprio corpo, senza giudizi spietati sul suo aguzzino, senza nemmeno stigmatizzarlo eccessivamente, soprattutto evitando di diventare lei vittima sacrificale. Un atteggiamento, nella tragedia, assolutamente vincente, che ridicolizza il carnefice rendendolo unico perdente della vicenda. Ma qui siamo a teatro, dove ogni storia è finzione. Fuori, lo sappiamo bene ormai, è tutt’altra cosa: una brutta storia in cui non ci sono vincitori, ma soltanto sconfitti; una, dieci, cento storie che trovano nelle autorità soltanto la stolida incapacità di esecuzione.
Pubblicato anche su Quarta Parete il 22/11/23