IL DRAMMA DI CESIRA IN UNA REGIA SENZA REGISTA
«’A carne è gghiuta ’a sotto, e ’e maccarune ’a coppe». Traduzione letterale: la carne è finita sotto ai maccheroni. L’antico detto partenopeo potrebbe essere il lapidario commento di quest’allestimento tratto da La ciociara di Alberto Moravia. Sulle montagne nei pressi di Fondi, comune in provincia di Latina, dove perlopiù si consuma il dramma di Cesira e di sua figlia Rosetta, il dialetto napoletano è tuttora vivo e parlato; ergo, il popolare proverbio è ancora ben conosciuto in quelle zone che fino al 1927 facevano parte della provincia di Terra di Lavoro, ultimo lembo del decaduto Regno borbonico. Il significato indica che il ragù domenicale, pasto certamente prelibato e atteso sulla tavola imbandita a festa, è stato servito nella maniera sbagliata. Gli ingredienti ci sono, ma sono stati posizionati nella zuppiera al contrario: il sugo saporito con la carne è stato seppellito dalla pasta rimasta bianca e scondita.
Cominciare la recensione con una frase tipica napoletana, citando i Borboni, è il miglior viatico per introdurre Annibale Ruccello, autore dell’adattamento teatrale di questa messinscena che è del 1985. Non si vuol dire che Ruccello abbia usato il linguaggio della sua terra. Tutt’altro! Anzi, è stato rispettosissimo dell’impostazione voluta dall’autore del libro, ma la sua operazione non si è limitata a tradurre per il palcoscenico un romanzo in prosa, così come fecero De Sica e Zavattini per il film con la Loren, che tutti (è una speranza!) conosciamo. Ruccello ha condito i dialoghi dei personaggi che danno vita al dramma di Moravia, aggiungendovi un filo di pensiero pasoliniano, un raffinato estratto di lettere da Casarsa, un pizzico di pepe corsaro come soltanto lui, intellettuale di razza, aveva nella penna. Ruccello sapeva bene che Pasolini e Moravia erano amici, che si frequentavano spesso sulla spiaggia sotto il profilo della maga Circe, che si stimavano reciprocamente, e insieme costruivano dialoghi che erano vere e proprie provocazioni per i conformisti della loro epoca. Insomma, l’uno ha arricchito l’altro e viceversa.
Nella stesura dell’adattamento, questa profonda ricchezza intellettuale, si avverte, se ne sente il profumo; troppo vago, però, perché fatica a salire dal fondo di una zuppiera ricolma di maccheroni sconditi. Le frasi proposte da Ruccello, per raggiungere gli spettatori, devono passare attraverso l’ugola degli interpreti, i quali però fanno parte di una regia senza regista. E le loro voci vengono fuori disordinate, prive di equilibri, ma con una sovrabbondanza di emotività pesanti e colorate che stordiscono la fioritura letteraria. L’allestimento proposto al Ghione fino a domenica 12, infatti, è quello di Aldo Reggiani, morto nel 2013, e la messinscena è di Caterina Costantini, sua moglie. Si comprende, addirittura con affetto, oltre che con il rispetto che merita l’iniziativa, la volontà di omaggiare un valente attore nel decennale della sua scomparsa, ma forse il tributo – che era necessario – andava trattato con più finezza, con maggiori attenzioni soprattutto nella recitazione. Una regia non è fatta solo di movimenti e di situazioni sceniche, ma è un vero e proprio studio della parola. Che è quello che manca. Le sottolineature, per esempio, che sono state evidenziate sono soltanto il frutto di intonazioni appassionate, esuberanti, evocative, in un testo che invece è un concertato intellettuale. Insomma, l’uno confonde le altre e viceversa.
Foto: (da sin) Vincenzo Pellicanò, Vincenzo Bocciarelli, Armando De Ceccon, Caterina Costantini, Flavia De Stefano (© Carlo Bellincampi)
Pubblicato anche su Quarta Parete il 10/11/23