04 dicembre 2024

«Il giardino dei ciliegi», Cechov/Lidi

Roma, Teatro Vascello
3 dicembre 2024

CECHOV NEL GIARDINO DEI PAZZI

Quando la commedia finisce e l’ambiente circostante riprende le sue forme e i suoi rumori, si ha la sensazione di essere un marziano che per la prima volta guarda il nostro pianeta, osserva come sono fatti gli umani, ascolta i suoni che essi emettono; insomma, un sano stordimento cerca di attutire il violento ritorno alla realtà. Il viaggio non è durato molto – un’ora e quaranta è un tempo più che accettabile per una scappata in una landa sconosciuta: ci avevano avvertiti che sarebbe stata la nuova esplorazione del «Giardino dei ciliegi», ma se di giardino si tratta – e ne avrei qualche dubbio – temo sia stata più una traslazione temporanea nel giardino dei pazzi.

Un giardino dei pazzi dove i debiti si pagano con i fiori sfusi; dove però i mazzolin di fiori, non sono cambiali da pagare a vista, ma restano semplici mazzolin di fiori; dove la gente va in giro con la pistola in tasca, ma anche con un gambo di sedano come corpo contundente; dove, in una casa aristocratica, un vecchio maggiordomo in frac, ancora in servizio, è seduto su una sedia a rotelle e serve il caffè nei bicchierini di plastica usa e getta; dove un tizio, per mostrare le proprie scarpe nuove, si esibisce in un audace tip-tap alla Fred Astaire con tanto di claquettes sotto le suole; dove in abiti moderni (tipici degli anni Settanta, 1970, ma anche Ottanta) si va a Parigi a veder volare il pallone aerostatico del secolo scorso; dove una ragazza in tuta sportiva, color fucsia, desidera rinchiudersi in un convento perché non ha il coraggio di dare un bacio all’uomo della sua vita; dove il vecchio maggiordomo in carrozzella, dopo aver fatto da poltrona umana per le terga dei più pigri, si concede una gita sulla riva del fiume a prendere la tintarella, senza più frac naturalmente; dove un uomo, ricevendo una scarpa nello stomaco, dice che gli verrà un bernoccolo in testa; dove a una festa casalinga si balla come in discoteca, ma poi ci si dà del lei come forma di cortesia, comprese le figlie con la mamma come nel XIX secolo; dove il giovane cameriere è eternamente arrapato e salta addosso alla cameriera e alla padrona di casa come un mandrillo e senza alcuna remora; dove la governante, in abiti succinti, è rappresentata come il più repellente transessuale dal tempo dei babilonesi; dove la gente va a farsi il bagno con il costume da mare e sfodera le antenne del microfono che svettano dalle chiappe; e dove all’improvviso spunta, da molto lontano, un richiamo ai decadenti, i poeti decadenti, ossia Verlaine e Rimbaud.

Dove – a questo punto meglio andare a capo perché l’appunto è serio – un fratello e una sorella diventano due sorelle e il clima aristocratico decadente non esiste più: una sembra la sguattera dell’altra, e l’altra sembra non essere mai stata una signora altolocata e nemmeno un’amante trasandata. Nulla è credibile: le teorie aristoteliche saltate completamente in un testo che invece ne è fedele anche nei sentimenti. La sorella abusiva, per esempio, colei che ama il tavolo da biliardo e le caramelle, è un personaggio talmente avulso dal contesto che qualunque cosa faccia risulta senz’anima, senza luogo e senza tempo: non riesce a costruire un solo rapporto umano, nemmeno con il suo vecchio maggiordomo che, alla fine del terzo atto, ella stessa abbraccia soltanto per spingerlo fuori scena, poiché non sussistono altre spiegazioni emotive. Un abbraccio di servizio, si direbbe! Tutto è in mano al disordine scellerato. Tutto è senza logica. Compresa la recitazione (checché ne dica il regista!): senza ritmi, senza pause, se non in due occasioni. Insomma tutto è teatro sgradevole.

E siamo arrivati al punto. Leonardo Lidi porta in scena il teatro sgradevole, quel teatro che oggi siamo costretti troppo spesso a vedere senza avere il coraggio nemmeno di lanciare in palcoscenico un gambo di sedano per protestare contro l’obbrobrio che ci propinano sedicenti registi improvvisati. Prende in prestito da Cechov il suo testo più delicato, più poetico, più umoristico, senza neanche adattarlo, per rappresentare il teatro di quei produttori concentrati esclusivamente sul ritorno economico. A pensare ai soldi si rischia di non badare al prodotto finale. Così, quel meraviglioso Giardino dei ciliegi che Anton Cechov descrive in quattro atti, diventa una corsa insensata e priva di qualunque sentimento; diventa il giardino dei pazzi, dove ogni attore recita una commedia a sé, senza mai partecipare all’idea comune. Diventa il teatro a cui ci stiamo abituando. Se per Lidi il giardino è il teatro, gli alberi, che non producono più ciliegie succose e saporite come una volta, diventano gli allestimenti odierni (e quanti se ne vedono!) sterili, privi di idee e di grazia. Il teatro è quel luogo dove la cultura dovrebbe vivere e invece c’è chi l’ha voluta uccidere… per costruirci, come Lopachin, villette per i villeggianti e ricavarci il miglior guadagno.

La metafora di Lidi non è avventata: la si evince dal finale, quando le scene vengono spazzate via e gli ingombri del palcoscenico riempiono di senso critico ciò che prima appariva soltanto sgradevole – così come ho voluto costruire questa recensione. La metafora di Lidi chiude visivamente il cerchio della sua trilogia cechoviana (che comprende anche Il gabbiano e Zio Vanja). Ma con tutto lo sforzo benevolo e intellettuale che la sua intenzione richiede, è faticoso dover sopportare tanta sgradevole visione – cento minuti di folli insensatezze – per sostenere un’idea che nella pratica la si osserva ogni giorno spontanea su quasi tutti i palcoscenici nazionali. Le eccezioni sono davvero poche, e Lidi lo sa. E, come se non bastasse, per questa idea, volenterosa e audace, che altro non è che una folle ribellione, onesta e giusta, Lidi chiama a collaborare il Teatro Stabile dell’Umbria, in coproduzione con il Teatro Stabile di Torino e con Spoleto Festival dei Due Mondi. Tante risorse, tante energie per mostrarci il teatro che non si dovrebbe fare? Suvvia, questa suona un po’ come una beffa: non soltanto s’è dovuto patire lo strazio di vedere Cechov ridotto a brandelli, ma sapere pure che l’operazione è costata non poco, aumenta il dissenso del marziano. (fn)
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Il giardino dei ciliegi, di Anton Cechov, traduzione di Fausto Malcovati. Con Francesca Mazza (Ljubov’ Ranevskaja), Giuliana Vigogna o Sara Gedeone (Anja, sua figlia), Ilaria Falini (Varja, sua figlia adottiva), Orietta Notari (Leonid Gaiev, che in questa edizione diventa Lenja, sorella di Ljubov’), Mario Pirrello (Ermolaj Lopachin), Massimiliano Speziani (Epichodov, contabile), Christian La Rosa (Trofimov, studente), Giordano Agrusta (Piščik e il viandante), Tino Rossi (Firs), Angela Malfitano (Duniascia), Maurizio Cardillo (Charlotta Ivanovna), Alfonso De Vreese (Iascia). Scene e luci di Nicolas Bovey. Costumi di Aurora Damanti. Regia di Leonardo Lidi. Produzione, Teatro Stabile dell’Umbria, in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi. Al teatro Vascello, fino all’8 dicembre

Foto: Maurizio Cardillo, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna, Alfonso De Vreese, Angela Malfitano, Giordano Agrusta (© Gianluca Pantaleo)

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