Roma, 29 settembre 2025
ALLE CINQUE DEL MATTINO, L’URLO DI TIRELLI: «È MORTO ROMOLO»
«Valli, sempre Valli, fortissimamente Valli»
Questo articolo non è soltanto il resoconto di un’intervista, anche se prende consistenza dalle parole di Dino Trappetti su Romolo Valli. Avevo chiesto a Dino di parlarmi degli ultimi momenti vissuti dall’amico: anni fa me ne parlò Peppino Patroni Griffi, e poi anche Anita Bartolucci, ma volevo sentirlo dalla sua voce, perché tra tutti gli amici di Romolo, lui quella sera era stato lì, al suo fianco, fino a poco prima della tragedia. Questo articolo è il proseguimento naturale di quello che pubblicai nell’aprile scorso, quando, prendendo a pretesto il ritrovamento di una recensione di qualche anno fa, la riscrissi tralasciando completamente la visione dello spettacolo, non ne valeva la pena, e dando la precedenza ai veri protagonisti di Prima del silenzio. Questo articolo vuole essere un atto dovuto nei confronti di uno dei protagonisti più illustri del nostro palcoscenico; vuole essere un colpo di spugna sulle tante menzogne che si dissero all’epoca intorno a un episodio che fu soltanto il tragico epilogo di un grande attore che viveva del piacere della parola che in lui trovava sempre l’asilo più naturale e confortante.
Ma tu riuscisti a vedere Prima del silenzio con Romolo?
La prima domanda è di Dino Trappetti. «No. Rimase in scena troppo poco. Non feci a tempo. Però vidi Valli, e ne rimasi folgorato, quando fece Oscar Wilde. Era il 1979, avevo 14 anni, e mio padre mi spinse, con una certa insistenza, ad andare all’Eliseo per Divagazioni e delizie di John Gay, diceva che mi sarei divertito molto. Infatti, tornai a casa entusiasta per Wilde e per Romolo. Perdonami se lo chiamo per nome, ma negli anni successivi, attraverso i racconti di Peppino e di Anita, Giorgio De Lullo e Romolo Valli sono diventati “di famiglia”. Della famiglia teatrale nella quale sono cresciuto. Ed era difficile sentire il nome dell’uno senza l’altro. A volte, nella descrizione di un episodio, m’è sembrato addirittura di scorgere la stessa persona, di confonderli.»
«Vivevano l’uno in simbiosi dell’altro – comincia Trappetti – e per la differenza dei loro caratteri si compensavano perfettamente. Giorgio più riservato, Romolo sempre vulcanico e affettuoso. Ma dietro la squisita esuberanza di Valli, c’era la ponderatezza di De Lullo. Entrambi avevano una cultura immensa e un gusto incredibilmente raffinato: era il loro cibo quotidiano.»
In verità, in un’intervista di Dante Cappelletti a Romolo si legge che la sua virtù preferita è «la temperanza, quella che non ho.» Romolo amava mangiare, e mangiava bene – me lo ha confermato la Bartolucci. Pare andasse matto per le patatine fritte nel lardo, per i ciccioli. Giorgio, invece, a tavola era molto più morigerato. Tuttavia la coppia, teatralmente parlando, era perfetta. Insieme con Strehler, in Italia, sono stati fondamentali per traghettare la visione del teatro dall’antico al moderno. Basta pensare all’operazione fatta su Pirandello.
«Ma non solo – riprende Trappetti – il lavoro più innovativo, Romolo lo fece negli anni in cui fu direttore artistico del Festival di Spoleto. Cominciò nel 1972 invitando il suo amico Patroni Griffi ad allestire Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Brecht, con le musiche di Weil, un cast strepitoso. La conversazione continuamente interrotta di Flaiano con le musiche dei Pink Floyd: la regia era di Vittorio Caprioli. Spettacolo geniale. Nel ’73 richiamò alla regia Visconti, dopo l’ictus, e ne nacque uno dei capolavori della lirica: quella Manon Lescaut che poi fu replicata l’estate successiva. E pensare che Menotti dubitava della lucidità di Luchino, che accettò di dirigere un’opera alla quale nemmeno pensava. Lui aveva in mente di mettere in scena la Louise di Charpentier.»
L’elenco dei ricordi di quegli anni potrebbe andare avanti all’infinito con Il malato immaginario, La gatta Cenerentola «… a proposito, è stato Romolo a commissionare un’opera a De Simone quando nel ’72 la Nuova compagnia di canto popolare sbarcò per la prima volta al Festival dei due mondi. Soltanto che De Simone ci mise quattro anni a scriverla, ma Romolo ebbe fiducia e pazienza. Era un grande scopritore di talenti. Aveva intuito. E si fidò di me, quando gli proposi di ospitare Bob Wilson.»
La chiacchierata con Dino Trappetti tocca moltissimi punti. Ma io ho premura di arrivare alla notte del 31 gennaio 1980. «Erano gli anni dell’Eliseo. Giorgio e Romolo presero la direzione di via Nazionale nel 1978. Ci fu il passaggio delle chiavi da Torraca a Battista. I progetti furono subito tanti. Le innovazioni valutate attentamente. Non mancarono certe difficoltà che segnarono l’equilibrio dei Giovani che si stava ricreando. Io seguii Giorgio e Romolo all’Eliseo. Lasciai Spoleto. Ero entrato nel vivo del lavoro organizzativo. E, coinvolgenti com’erano, si stava sempre insieme, con il piacere di stare insieme e di lavorare insieme.» Nel tono di Dino affiora un’emozione quando pronuncia la parola insieme. C’è vita in quell’unione, ancora oggi, dopo quasi mezzo secolo. Un legame che non s’è mai spento. D’altronde, come sosteneva Patroni Griffi: «Quando si stava con Romolo, non c’era gusto a parlare con gli altri».
«Purtroppo sia Giorgio che Romolo accusarono i colpi inferti da Rossella Falk che nel frattempo era riuscita, all’insaputa di tutti, tramite Battista, a entrare nelle quote azionarie del teatro ponendo quindi delle condizioni che né l’uno né l’altro avrebbero potuto accettare. Giorgio se la prese moltissimo e giurò: “Sulla tomba della nostra amicizia non cadrà neanche una lacrima…”. Romolo si trovò in mezzo a due fuochi e quando lei lo mise di fronte alla scelta, “o con me o con Giorgio”, non ebbe dubbi. Cercò di farla ragionare, ma fu vano il tentativo. Ci fu anche un altro episodio, oscuro, che inquietò Romolo: lo confidò a Paolo Grassi». Era il momento della «delega bianca» conferita a Licio Gelli dal Gran maestro della massoneria e qualcuno propose a Valli un’affiliazione nella loggia in cambio di favori. «Romolo – prosegue Trappetti – era sconvolto. Mi disse che me ne avrebbe parlato, ma non ci fu l’occasione. Insomma, fu un periodo molto complicato, pieno di tensioni e la vecchia ulcera allo stomaco ne risentì e ricominciò a bruciare. Mangiava con prudenza, allora, ma non bastava. Gli unici momenti distensivi erano le prove di Prima del silenzio.»
Tra le scartoffie di Patroni Griffi, nel fascicolo dedicato alla commedia, c’è un foglio scritto a mano. È datato «11 dicembre 1976 (durante la première del Giuoco delle parti)». È chiaro che si riferisce alla ripresa con Gabriele Tozzi e Anita Bartolucci al posto della Falk. In alto vi si legge: «Due giornate d’un poeta. Due telefonate. Dopo aver parlato a lungo con Luchino e Nora [Visconti morì il 17 marzo ’76 e la Ricci un mese dopo] … ma non sono morti? Ci ho parlato come se fossero veri, vivi, là, dietro quel filo… Chi mi ha fatto questo scherzo?» E più sotto, ancora: «Vive con un ragazzo al quale rappresenta di continuo la vita d’una volta… Cannes, l’isola dei nudisti, le stupidaggini, le sciocchezze. Lui canta al pianoforte. E gli spiega come sarà brutta e triste la vita giusta di domani. Tremendamente lineare…» Una commedia nata dal sogno di un dialogo telefonico con due amici che già non c’erano più. In poche righe Peppino delineò tutta la prima scena su quel foglietto.
Malgrado i fastidi e i dolori di Valli lo spettacolo debuttò il 28 dicembre 1979 all’Eliseo. Nel cast, oltre a Fulvia Mammi, una cara amica che interpretava la moglie, a Franco Scandurra, il cameriere, e a Matteo Corvino, il figlio, c’era un bel ragazzo, Fabrizio Bentivoglio nel ruolo dell’antagonista. Motivo per cui subentrarono le malelingue. A Dino chiedo chi sono le malelingue? «Sono quelli che portano il male, che vedono il male sempre e dovunque. Oggi siamo pieni di malelingue. È diventata un’attività redditizia. Romolo è morto e le malelingue hanno tirato in ballo particolari assurdi, ingannevoli, in malafede. Storie inventate su una relazione che non c’era, che non poteva esserci. Quante bugie sono state dette e anche scritte.»
Come andarono i fatti? «L’ulcera era persistente. I dolori ovviamente lancinanti. Romolo la stava curando. Cercava di tenerla sotto controllo. Ma già a gennaio lo spettacolo fu sospeso per una settimana. Giorgio, impegnato con la compagnia dei ragazzi che debuttava a Milano con La dodicesima notte, partì. Romolo lo avrebbe raggiunto a fine repliche per la ripresa di Tre sorelle. Senza Giorgio ero io che stavo accanto a Romolo, dalla mattina alla sera. Il 31 gennaio era domenica e ci fu la pomeridiana. Dopo lo spettacolo andammo a cena insieme, a casa sua, sulla via Appia. Con noi c’erano la signora Matilde, mamma di Valli, Bentivoglio e Paolo Valli che lavorava con noi in teatro. Paolo è il figlio di un cugino di Romolo.»
«Dopo cena Romolo mi chiese di andare a fare un giro. Sentiva addosso una strana stanchezza. Aveva bisogno di distrarsi. Chiamai Enrico Lucherini che all’epoca gestiva il Much Moore, locale molto in voga ai Parioli. Enrico ci accolse con una pioggia di fuochi artificiali. All’improvviso l’espressione di Romolo divenne grigia. Gli occhi fermi. Perle di sudore sulla fronte. Mi pregò di uscire. Voleva andare a casa. Mi offersi per accompagnarlo, ma declinò l’invito. Anzi volle accompagnare lui i ragazzi. “Non devo nemmeno allungare: sono di strada”, disse. Lasciò prima Fabrizio e poi Paolo. Si avviò da solo verso porta San Sebastiano. Verso casa, insomma. Il mio rammarico è di non aver insistito: avrei dovuto mettermi io al volante.»
«Alle cinque del mattino mi svegliò l’urlo di Umberto Tirelli che stava nella stanza accanto alla mia. Corro e chiedo cosa fosse accaduto: “È morto Romolo”. “Ma che stai dicendo?” Dall’altra parte del filo, la cameriera stava raccontando che la macchina era stata ritrovata all’alba contro un cancello. Lui riverso sul volante che gli comprimeva lo stomaco. Chiamai subito qualcuno a Milano: bisognava avvertire Giorgio. “Mi raccomando, con cautela”, dissi non ricordo se alla Giachetti o alla Bartolucci. Poi telefonai a Peppino: mai si sarebbe aspettato una telefonata a quell’ora: “Peppino, dobbiamo andare all’obitorio, dobbiamo fare il riconoscimento”. “No, no, vacci tu. Io queste cose non le so fare!”. Raggiunsi il luogo dell’incidente. La macchina era stata portata via. Ma a terra, sul lato opposto al cancello, dove c’era stato il primo impatto contro un blocco di tufo, ho trovato… aspetta…» Trappetti si allontana e torna con una targhetta in metallo, dov’è siglato il tipo della Rover di Valli, 3500S.»
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Foto in alto: Romolo Valli in «Prima del silenzio» (© Tommaso Le Pera)