25 settembre 2025

Intervista con Roberto Russo

Roma, 24 settembre 2025

L’ERETICO DEL TEATRO,
IL DRAMMATURGO DELLE LIBERTÀ

«In palcoscenico incombe una nebbia rossastra. Non esistono belle parole per descrivere quel che stiamo vivendo»

L’occasione per un incontro con Roberto Russo è la notizia di un importante riconoscimento che gli sarà consegnato sabato 27 settembre. Con cerimonia che si terrà al Teatro Sannazzaro di Napoli, il drammaturgo partenopeo, classe 1960, riceverà il Masaniello «Unicum», intitolato a Guglielmo Celestino, il Conquistacuori. Destinato a chi si è particolarmente distinto per le sue qualità professionali, il premio celebra coloro che sono riusciti a interpretare con la loro opera lo spirito della città. L’appuntamento, fissato a Napoli per domenica 21, ovviamente di sera, al ristorante e nell’atmosfera più amichevole e confidenziale che si possa immaginare, viene però turbato sul nascere da una curiosa coincidenza. Ero da poco sceso dal treno, in tarda mattinata, e stavo per raggiungere il luogo che mi avrebbe ospitato, quando all’altezza del San Carlo una ferale notizia mi raggiunge: «È morto Roberto Russo», mi avverte un’amica al telefono, ignara che mi trovassi a Napoli proprio per incontrare… Roberto Russo. Sul momento l’effetto sorpresa è stato abbastanza scioccante: non capita tutti i giorni di partire per andare a intervistare un fresco estinto! Poi l’improvviso nome di Monica ha riportato chiarezza: conoscevo il marito della Vitti, ma non tanto da rivolgere a lui il primo pensiero.

Dunque, accompagnati da una ventata apotropaica, ci sediamo al tavolo di un locale di ultima generazione, nel cuore di Santa Lucia, che – vale la pena ricordarlo per qualche nostalgico – quarant’anni fa era il ritrovo di ogni teatrante che passava per la città, era il regno di Mico Galdieri e lì Mariano Rigillo era di casa: il ristorante si chiamava Da Peppino, e Alfonso, il cameriere più anziano, aveva il dono di ricordare i nomi di tutti, protagonisti e non, della scena italiana, che transitavano per quella mensa. Sì, va pure bene rimembrare il passato, penserà il lettore, ma così si accampano parole dimenticando l’intervista e l’intervistato. Nient’affatto, siamo gente di teatro e occorre creare, se non proprio una scena, almeno un’atmosfera. Così, se l’intervistatore ha da raccontare il prologo della telefonata, anche l’intervistato mostra il messaggio di un amico che sospettoso gli chiede: «Robe’, sei vivo?»

Una battuta di facile sarcasmo che, però, ci induce subito a salire di livello e ad aprire una finestra sul concetto dell’eternità di vichiana memoria. «Certamente stiamo vivendo un’età dell’uomo molto decadente, dove il pettegolezzo piccolo e volgare prevale sul raffinato e sul consistente. L’arte in generale, e il teatro, che è il più grande recipiente di arti, contengono quei valori provvidenziali che talvolta ci riscattano dalle nostre bassezze, anche se non evidenziano i tratti del sociale. Anzi, voglio essere provocatorio: soprattutto se non evidenziano i tratti del sociale. L’arte è anarchica e chi non affronta, in maniera diretta, gli argomenti del quotidiano non può essere demonizzato o catalogato come indifferente. L’artista non deve, a priori, assegnare alle sue opere un carattere didattico. Il fulcro di un’opera deve essere sempre e comunque la totale anarchica libertà. Oggi, purtroppo, si tende a seguire il flusso di una massa informe, il linguaggio dei social, il pensiero più semplice e inetto che fa presa sull’ignoranza e che distrae facilmente dalla storia, dalla ragione e soprattutto dal senso della libertà di pensiero.»

In sintesi, il pensiero di Roberto Russo è condensato in questo principio che è soltanto l’antipasto, quello che in tavola è servito in forma di bruschetta. Poi arriva il piatto forte. «Rispetto a molti autori contemporanei mi sento un eretico. Io amo gli eretici perché sono gli unici che esprimono con sincerità il valore della libertà. In questo periodo, soprattutto in teatro, sento che esiste una sottocultura dilagante che proviene dalla famigerata filosofia woke che, con i suoi eccessi fanatici, sinceramente detesto e che comunque dovrebbe rimanere lontana dal palcoscenico. Nessuno nega che alla base possa esserci sempre un humus politico in ciò che si scrive, ma forzare la motivazione sociale solo perché un intellettuale lo deve fare, ecco, questo automatismo fatto a priori abbassa certamente il livello artistico. La verità, secondo me, è che l’artista di teatro, che sia scrittore o intellettuale, dovrebbe seguire l’insegnamento musicale, dove il linguaggio è universale ed emozionale. Ho sempre trovato aberrante il pensiero dell’intellettuale organico, individuato da Gramsci. Nell’organico c’è l’Unione sovietica, c’è la costrizione, c’è l’uso dell’artista e il suo imbavagliamento, più o meno consapevole, che è il contrario della libertà di pensiero e di parola. Sul teatro, purtroppo, incombe una nebbia rossastra.»

Pericolosa?
«No. Inutile! È una nebbia che si presenta con pretese artistiche e l’arte non rappresenta mai un pericolo. Può diventare un pericolo soltanto per chi si presta al compromesso e accetta di partecipare all’impresa che il discorso politico svilisce al rango di affare economico che non ha nulla di artistico. Mi riferisco ai produttori e a tutta un’accolita di sostenitori che hanno parecchie responsabilità sulla crisi che colpì il teatro qualche decennio fa. Chi ha gestito la politica culturale italiana dagli anni ‘70/80 in poi, chi disse che i testi dovevano essere l’espressione della cultura borghese, chi ha sovvenzionato queste nuove idee pseudo-teatrali, tutti costoro hanno sulla coscienza la morte del teatro: gli spettatori cominciarono a sentirsi emeriti imbecilli di fronte a spettacoli incomprensibili e poco digeribili, tanto da abbandonare le platee costringendo l’evento teatrale a un parterre di nicchia. Da dove venivano tanti produttori, critici teatrali, potenti registi che hanno creato quell’amichettismo che ancora oggi imperversa? Al di là delle mie idee, ho proprio un rigurgito nei confronti della sinistra teatrale italiana. C’è poco da fare!»

Che cos’è il teatro?
«È il luogo dove si dovrebbe rappresentare la libertà. Nel senso che l’autore di teatro dovrebbe essere libero da schemi sociali. Pensiamo a Pirandello, esploso come commediografo durante il periodo fascista, eppure mai inquadrato nei confini della dittatura; malgrado le rigidità imposte dal regime è riuscito ad andare oltre e a esprimere la sua idea di libertà intellettuale. Idem per Pasolini, il più libero pensatore della modernità: l’unico che è riuscito a fare di un pensiero politico un inno alla libertà.»

Ma Pasolini era di sinistra!
«Sì, quando una certa sinistra rappresentava un’apertura, Pasolini ne divenne il faro illuminato: prese posizioni libere ed eretiche. Io detesto la demagogia, il fanatismo programmatico, l’arroganza culturale e il senso, assolutamente ingiustificato, di superiorità di questa sinistra, quella che viviamo adesso e che pare voglia sempre farti la lezioncina delle buone maniere. Insomma, c’è sempre la volontà di irreggimentare.»

Irreggimentare? Che brutta parola!
«Non esistono belle parole per descrivere quel che stiamo vivendo. I non irregimentati a sinistra in campo culturale sono davvero pochi. I Pasolini sono diventati una chimera. Per il resto, tranne qualche cane sciolto, se non hai santi in paradiso, sei condannato all’emarginazione. Decisamente non ho simpatie a sinistra e l’ammetterlo mi apre già i cancelli dell’isolamento. Ma sinceramente non m’importa molto.»

E sulla destra come si esprime, Roberto l’eretico?
«Per molti aspetti il mio pensiero si ritrova con questa destra, perché la reputo moderata e soprattutto perché non ci vedo una tradizione di controllo culturale, così come pretende la sinistra. Mi sembra che ci sia più libertà di espressione: il “politicamente corretto” non è una coercizione che arriva da destra, dove certamente non si è abituati a voler inquadrare un artista. Il Fascismo era certamente altro, ed è ridicolo accostarlo alla nostra realtà. Mi auguro che, anzi, proprio in campo culturale e artistico, ci sia sempre più una maggiore cura per garantire l’indipendenza. Ogni forma egemonica, ogni imposizione, diventa intollerabile, così come ogni regime è un obbrobrio. Oggi è finalmente possibile pensare a una variegata presenza di tendenze politico culturali, anche se l’ispirazione dell’artista dovrebbe essere sempre scevra da contingenti influenze legate alle questioni politiche.»

S’è detto, al di là di coloro che per questioni personali hanno appoggiato i regimi di tutto il mondo, che non esistono autentici scrittori di destra.
«L’ho sentito dire anche io, ma è una grande boiata. In letteratura, come nel teatro nel ‘900 ci sono stati scrittori ben lontani dalle tendenze brechtiane e marxiste. Il teatro dell’assurdo, ad esempio: Ionesco, ma anche Celine. E poi altri scrittori del surreale o della tradizione, i cattolici o quelli che si sono espressi contro la visione sovietica. Borges, che è un illuminato del Novecento, non è certamente uno scrittore di sinistra».

E di Ezra Pound, che cosa ne pensi? La domanda sorge spontanea, visto che Roberto Russo quest’estate ha presentato, al Festival delle Ville Vesuviane, «Il fuoco di Pound», spettacolo diretto da Fabrizio Bancale e interpretato da Gigi Savoia e Francesco Maria Cordella.
«Pound è un grande poeta. Nei Cantos, come nei Canti pisani, ha saputo esprimere concetti universali con un lirismo altissimo. I suoi versi sono poesia libera, senza condizionamenti. Certamente, poi, la sua visione del mondo, quella che ha descritto in alcuni articoli, e l’epoca in cui ha vissuto lo hanno portato a fare personali considerazioni politiche e sociali sulle quali possiamo discutere, ad abbracciare teorie di una destra che allora era estremista. Pound, però, ha trattato in versi, come nessun altro, argomenti che riguardano critiche nei confronti dell’economia che era governata esclusivamente dal capitalismo che, senza mezzi termini, chiamava usura; nei confronti del marxismo che spersonalizzava l’individuo. È stato il poeta che s’è scagliato con severità contro la stupidità umana: “… stupidità maligne, stupide, / il pus vivo, pieno di parassiti, / vermi morti a generare vermi vivi, / proprietari di bassifondi, / usurai a schiacciar piattole, / ruffiani ai potenti, … sciame di pidocchi in dentizione, / e sul tutto blaterano oratori, / scoreggiano predicatori.” Va da sé che ogni epoca e ogni ambiente ha i suoi predicatori!»

Anche in teatro?
«Certamente! Anche il teatro è fatto da uomini, sia in palcoscenico che in platea dove i critici, al solo sentire il nome di Pound, arricciano il naso con sospetto giudicandolo per la sua ideologia politica, perché non hanno letto neanche un suo verso. Questa è la sottocultura di cui parlavo: giudicare qualcuno per sentito dire, senza approfondire l’opera dello scrittore. Come se si potesse analizzare la pittura del Caravaggio dal suo carattere bizzoso: due aspetti dell’uomo estremamente diversi. A un artista non si richieda la santità: questo, i woke non vogliono capirlo!»

Ma i critici di teatro non possono sapere tutto e aver letto tutto: sono esseri umani anche loro.
«Per giudicare un’opera non occorre una sapienza enciclopedica: bisogna prima di tutto avere una mente sgombra da preconcetti; essere disponibili a una nuova possibilità, quella che offre l’artista.»

Vuoi dire: essere liberi?
«La libertà mentale è il seme dell’intelligenza e della conoscenza: Fatti non foste ad esser … Va be’!»

Hai detto che un autore di teatro non dovrebbe essere influenzato politicamente, eppure stiamo parlando soltanto di politica.
«Tutto gira intorno alla politica. La politica influenza la vita: per questo l’arte se ne dovrebbe distaccare. La politica di oggi diventa la storia di domani. Anche quando ho scritto due lavori storici, come Le due regine, sulla rivalità tra Elisabetta Tudor e Maria Stuart, o La rosa non ci ama sul tragico amore tra Carlo Gesualdo e Maria d’Avalos (che era Cloris Brosca), entrambi diretti e interpretati da Gianni De Feo, s’è trattato di politica: politica del passato che ha agito sulle personalità dell’antica aristocrazia. E anche quando scrivo di Masaniello, nel brano, interpretato da Riccardo Citro, che sarà presentato durante la cerimonia del premio, anche lì scelgo che ci sia politica. Ma per libertà di un autore, cioè libertà artistica, intendo il modo con cui egli affronta la scrittura di un testo o, per un regista, come lo mette in scena. Voglio essere libero di pensare come mi pare, senza per forza dover obbedire a qualche necessità: quella necessità di dover trasmettere un messaggio collettivo o, peggio, affrontare la tematica sociale che sarà per forza squallida e avvilente come quella che viviamo. Il teatro, questo è l’impegno, deve dare di più. Deve essere un profondo graffio nell’anima di chi guarda. Il resto è cianfrusaglia.» (fn)
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Foto: Roberto Russo (© ???)

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