MARLENE IN FRAC CHIUDE IL SIPARIO SUL PRE-CODE
Tra il 1930 e il ’35 Josef von Sternberg realizzò sette lungometraggi scegliendo, come protagonista femminile, Marlene Dietrich, la sua creatura preferita: colei che più di ogni altra riusciva a rappresentare le esigenze del regista austriaco. Lui discendente di nobile stirpe viennese; lei proveniente dai sobborghi di Berlino, si ritrovarono a condividere lo stesso amore per il cinema. Blonde Venus (1932) è il quinto dei sette; unico ambientato in America. Sembra essere una sfida alle regole (ancora soltanto suggerite) del codice Hays. Il film si apre con un’immagine bucolica traboccante di nudità femminili: sette fanciulle sguazzano allegre e senza veli in un laghetto nella Selva Nera. La sequenza è ripresa a distanza tra le fronde dei salici che confondono la vista, e quando la telecamera si avvicina si nota chiaramente che le regole, almeno per quanto riguarda le parti basse, sono rispettate, mentre l’occhio viene ingannato artatamente dai rapidi movimenti delle nuotatrici. Inutile aggiungere che comunque la ripresa subì poi alcuni tagli dei fotogrammi più impertinenti.
Tuttavia la scena più oltraggiosa, per l’epoca, è quella in cui Helen (Marlene) riceve una somma pari a circa 2.700 dollari attuali (che le serviranno per salvare la vita del marito malato, Herbert Marshall), in cambio di una notte d’amore con l’affascinate milionario Nick Townsend (Cary Grant): l’immagine di una donna sposata che nel 1932 vende il proprio corpo, è lo schiaffo più forte diretto alla morale pubblica fortemente solidale con il concetto apostolico di famiglia e di matrimonio. Pollice verso anche per la domanda che Helen «spara» alla sua collega di camerino, soprannominata Taxi: «Vai a forfait o a tassametro?» I censori non lesinarono critiche nemmeno per la danza del gorilla (divenuta poi scena cult e ripresa da altri registi contemporanei); forse avranno chiuso un occhio sull’intraprendenza dell’ormai storico frac bianco, troppo allusivo a una certa spudorata omosessualità, ma sull’adescamento di un rappresentante della legge che porta la stella di sceriffo in un postribolo intervennero con severità. Infine c’è anche il tradimento, l’abbandono del tetto coniugale, il rapimento del figlio che spetterebbe al padre. Insomma, furono molti i capi d’imputazione, ma fino al 1934 Blonde Venus sopravvisse quasi integralmente.
Marlene, diretta magnificamente dal suo pigmalione, è alle prese con un ruolo dalle mille sfaccettature: c’è la madre attaccatissima al figlio, c’è la moglie fedele e innamorata, c’è la donna esuberante dell’avanspettacolo, l’intraprendente e coraggiosa amante adultera e volubile, la provocante adescatrice, la cantante dei locali malfamati e la grande stella del music-hall, e anche c’è l’ubriacona e la spaccona. Ma soprattutto ci sono gli occhi di Marlene, i suoi sguardi languidi e severi, e quelli disperati di una Anna Karenina che vede sfilare davanti a sé un lungo treno, troppo lungo per lasciar dubbi sulla recondita intenzione di un suicidio che però non accadrà. Infatti, quando tutto sembra perduto, dalle sue labbra impastate dall’alcol, si sente dire in inglese, ma con precisa dizione alemanna: «Tomorrow is another day», domani è un altro giorno, parole che sette anni più tardi, grazie all’intramontabile personaggio di Rossella O’Hara, divennero lo slogan del cinema sonoro.
Al di là delle più famose immagini (frac e cappello a cilindro bianchi, con sigaretta incastrata al lungo bocchino, i cappellini e le velette e i ventagli e una serie davvero speciale di abiti che Travis Banton ideò appositamente per esaltare il fascino della Venere Bionda) e le conturbanti inquadrature della diva che soltanto due anni prima era stata ribattezzata con il nomignolo di Angelo azzurro, la sceneggiatura pone al centro della questione un problema ancora non del tutto risolto. La legge all’epoca prevedeva che quando marito e moglie si separavano, la tutela del figlio spettasse al padre. Al ritorno dall’estero, Ned scopre il tradimento di sua moglie e immediatamente la allontana da casa chiedendole la custodia del bambino. Helen, con un inganno, scappa col figlio cominciando una fuga insensata da una città all’altra, inseguita dagli agenti e con possibilità economiche sempre più scarse, che l’obbligheranno alla resa. Il piccolo, quindi, passa nelle mani del padre. Senza figlio, Helen riprende la sua vita, e forte della sua arte di cantante, spicca il volo: ottiene in breve contratti e successo. Ned, invece, con Johnny da crescere, non riesce a lavorare, si stanca; la casa va a rotoli, il bimbo si lamenta che il padre non lo aiuta nemmeno a farsi il bagno, insomma sembra che il vero problema sia proprio lui, Johnny: è lui che crea il disagio, è lui che, in assenza di uno dei genitori, diventa l’ostacolo alla professione (che vuol dire possibilità di guadagno) di chi gli sta accanto. Gli autori puntano il dito su un impedimento necessario (il lavoro), non sulla più futile libertà di divertirsi.
Se da una parte il film, come abbiamo già sottolineato, mostra segni molto audaci che spesso oltrepassano il limite d’idoneità stabilito dalla censura, dall’altra propone un chiaro monito a sfondo cattolico che condanna l’idea del divorzio, indicando quanto sia necessaria la costituzione e il rispetto della famiglia, l’unico sistema, secondo questa visione, che consente di educare un bambino. Un figlio ha bisogno di due genitori, e i genitori hanno bisogno l’uno dell’altro per poter superare le normali difficoltà del quotidiano. Venere bionda, sì, sfacciata e intraprendente, ma, seguendo il dogma borghese degli anni passati, quando ci sono i figli, dopo Carosello, si va a ninna: «Tomorrow is another day!».
Foto: Cary Grant e Marlene Dietrich