CASO MORTARA: L’ASSURDA STORIA DI UN RAPIMENTO LEGALE
«Il dogma è una verità di fede in cui si crede senza fare domande». Marco Bellocchio fa pronunciare la frase che meglio descrive l’essenza della sua ultima opera cinematografica al piccolo protagonista di Rapito, pellicola nella quale il regista denuncia quanto ogni fede, sottraendosi al dubbio, possa calpestare i più elementari diritti di un essere umano e perfino ignorare le primarie necessità dettate dal naturale buon senso. Liberamente ispirato al libro di Daniele Scalise («Il caso Mortara», Mondadori, 1996, da poco ristampato per la collana degli Oscar), il film rivela al grande pubblico la travagliata storia di Edgardo (dolcissimo Enea Sala) che, nel giugno del 1858, a soli sei anni, fu sottratto alla famiglia per ordine di papa Pio IX (Paolo Pierobon, stakanovista ormai, dopo aver interpretato Riccardo III, dei ruoli perfidi e maligni). Il motivo che portò la Chiesa a strappare il bambino ai propri genitori è da rintracciare in una legge vaticana che vietava a persone di altre fedi di crescere ed educare i cristiani. Salomone e Marianna Mortara (un accorato e genuino Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi assai intensa) erano ebrei di Bologna, con una decina di figli: tutti allevati secondo i sacri principi della Torah, tutti privi di battesimo, tranne uno, Edgardo, battezzato all’insaputa dei genitori, da una domestica cristiana, che vedendolo malato l’aveva creduto in pericolo di vita. Ancora oggi esiste un decreto pontificio che consente a chiunque (anche non cristiano) di celebrare in extremis il rito del Battesimo per salvare l’anima del moribondo: sufficienti sono poche gocce d’acqua e la classica formula «Io ti battezzo nel nome…».
È solo l’inizio della vicenda che prosegue con l’inutile affanno dei genitori di Edgardo nel tentativo di riportarlo a casa, e poi anche con un processo indetto dal primo tribunale di Bologna italiana (1859). Civili iniziative poco fruttuose, però, perché ogni atto commesso fu dichiarato legale anche dalla corte del nuovo re. E, piaccia o meno, le leggi di uno stato, assurde che siano, vanno rispettate. Pio IX agì secondo il suo codice; Pier Gaetano Feletti (severo e ineluttabile Fabrizio Gifuni), inquisitore felsineo, fece eseguire gli ordini ricevuti dal pontefice; e Anna Morisi, domestica di casa Mortana, battezzò il piccolo Edgardo in buona fede e in territorio, all’epoca dei fatti, ancora pontificio. Tutti assolti, perché ogni atto fu commesso secondo le regole: e, se di rapimento si vuol parlare, si sappia che si tratta di rapimento legale, non solo per lo Stato pontificio, ma anche per il Regno d’Italia.
La sentenza del tribunale suona ancora più crudele del decreto di Pio IX: se questo fu la conseguenza di un burocrate della Chiesa (anche il papa può esserlo!) reso umanamente cieco dal dogma che la sua fede gli impone, l’altra fu deliberata da un giudice del nuovo regno sabaudo, anch’esso burocrate e con l’animo accecato dal codice. La legge, un altro tipo di dogma troppo spesso indiscutibile che bisogna accettare senza porsi troppe domande! Insomma, il problema sollevato dal caso Mortara non riguarda soltanto un papa e la Chiesa, ma ogni tipo di giustizia: quando, infatti, si agisce seguendo gli articoli del codice, spesso si commettono gravi errori giudiziari.
La sensazione è che Bellocchio, raccontandoci questa storia autentica, che coincide con l’Unità d’Italia, lanci un sasso in uno stagno, astenendosi da ogni giudizio morale, affinché si possa riflettere sui mali che la giustizia arreca ai cittadini, al di là della fede religiosa che, quando è osservata con abnegazione, porta inevitabilmente allo scontro dei culti. Edgardo, infatti sarebbe tornato tranquillamente in famiglia, se padre e madre si fossero convertiti al cristianesimo. Una minaccia certamente condannata da qualunque etica, ma di fronte alla quale probabilmente molte madri si sarebbero inchinate pur di riabbracciare il proprio figlio. Invece né la madre, né il padre del piccolo, con ostinazione dogmatica, accettano di battezzarsi. La conseguenza di questo rifiuto è che Edgardo si adeguerà alla vita monastica accanto a chierici e prelati, e in cuor suo non perdonerà mai l’ostinazione dei suoi genitori: non parteciperà al funerale del padre e tenterà di battezzare in extremis sua madre che l’ha lasciato in Vaticano sotto la protezione del Santo padre. A proposito, Pio IX fu l’ultimo pontefice che dimorò al Quirinale, mentre Bellocchio lo colloca sempre a San Pietro. Quando i bersaglieri fecero breccia a Porta Pia, guidati dal generale Cadorna, il papa ordinò la resa e si ritirò definitivamente in Vaticano.
I propositi di Bellocchio fanno parte di un più ampio discorso, oggi divenuto secolare. Tuttavia il regista agisce con delicata raffinatezza: da una parte propone un papa tenacemente risoluto nella convinzione del suo ruolo divino, che invita a pregare per gli ammalati e anche per «i perfidi ebrei», e che resta fermo sulle sue invalicabili posizioni mentre, dice, «il mondo va verso il precipizio» dell’immoralità; dall’altra oppone un dialogo ingenuo di due bambini che, al cospetto di un coetaneo appena deceduto, con le loro semplici osservazioni, inconsapevolmente, farebbero crollare all'istante quel fatuo tempio che il cattolicesimo ha costruito, appunto, sulla base di un dogma che si regge fintantoché non si facciano domande.
Foto: Paolo Pierobon con Enea Sala (© ph Anna Camerlingo)