IL DELITTO CHE TUTTI VORREMMO COMMETTERE
Dopo ventun’anni François Ozon costruisce, utilizzando gli stessi ingredienti, un film tipico della commedia sofisticata. «8 donne e un mistero», del 2002, ebbe un ottimo successo al botteghino. Ora, con un altro delitto e sempre con un abile gioco teatrale, il risultato sembra essere lo stesso: se allora il soggetto fu recuperato da un adattamento della pièce del 1958 di Robert Thomas, questo di Mon crime è stato suggerito dall’omonima commedia di Georges Berr e Louis Verneuil del 1934. Come tutti i film partoriti da un copione, anche l’ultima creazione di Ozon fa leva sulla parola, sull’ironia, sul binomio finzione-realtà. Quale miglior palcoscenico, nella vita reale, dove poter esibire l’assurdo di una finzione, se non un’aula di tribunale? In Francia ci arrivarono prima, ma anche in Italia, dopo il periodo fascista (che censurava certi azzardi), uscirono molti film che mostravano innumerevoli scene comiche ambientate nelle aule giudiziarie. Furono luoghi presi di mira dagli autori di cinema e teatro per divulgare quel concetto, spesso ingannevole (espresso chiaramente in «Mon crime»), che fare giustizia non è la stessa cosa che dire la verità. Soltanto così è possibile che autentici criminali vengano assolti con formula piena. Giustizia è fatta, ma la verità è tutt’altra cosa.
Ozon, nel suo film, utilizzando la teoria dell’assurdo, ribalta questa tesi. Si comincia con un delitto, pochi indizi e una sola sospettata: un’attrice giovane e già indebitata, infelice da 24 anni, ingannata dall’amore, ma legata a un’amica con la quale convive. Il resto è un mistero e tale deve rimanere, per cui si può svelare soltanto che l’assassinio del produttore Montferrand è il delitto che noi tutti vorremmo aver commesso. La trama è scritta con acuta effervescenza e realizzata con ritmo tipico delle commedie leggere di una volta: senza volgarità, senza parolacce, senza sangue che scorre. L’assenza di questi elementi, ormai consumati dal cinema che va per la maggiore, – è bene ricordarlo – facilita il sorriso, fa sbocciare una risata, aiuta a sciogliere le angosce quotidiane regalando perfino un po’ di buon umore. Antiche virtù, queste, dell’arte teatrale e cinematografica. Dagli antichi fescennini al vaudeville, da Feydeau a Scarpetta, da Stanlio e Ollio a Totò, il pubblico ha sempre cercato il divertimento a base di umorismo, e «Mon crime» rientra perfettamente nel contesto spassoso ed evasivo; tanto che il testo teatrale firmato da Berr e Verneuil è già stato adattato due volte per il grande schermo: nel 1937, «La moglie bugiarda» di Wesley Ruggles con Carole Lombard; e nel ’46, «Bionda fra le sbarre» di John Berry con Betty Hutton.
È vero, si ride, soprattutto grazie ai caratteri buffi creati da attori di grande esperienza (Fabrice Luchini, nei panni di un confuso giudice istruttore, Dany Boon, generoso costruttore, elegante dongiovanni platonico), ma tutti perfettamente allineati e coordinati per un’operazione che se in apparenza è comica, di base mostra una solidità sociale inaspettata. François Ozon, malgrado ambienti la vicenda nel 1935, affronta temi di grande attualità, quelli che oggi sembrano essere diventati intoccabili finanche se sfiorati da una battuta ironica. Guai a pizzicare con umorismo i diritti delle donne, o gli abusi degli uomini: si viene subito tacciati d’essere maschilista o femminista, se non addirittura (chissà perché) razzista o fascista, ed equivoci e malintesi, suggeriti da una costante protervia, portano inevitabilmente ad inasprirsi. Invece Ozon sa essere pungente come una zanzara senza disturbare nemmeno la quiete di un animalista.
Eppure le controversie giudiziarie che si susseguono sullo schermo e che vengono trattate con sagace umorismo (talvolta assurdo, talvolta no), riportano alla mente tanti episodi di cronaca nera degli anni passati. Resta evidente che Ozon riesce a far ridere anche se racconta dell’omicidio di un uomo da parte di una ragazza impegnata a perorare la sua causa basandosi sulla legittima difesa e cercando, tramite il suo avvocato (la tenace Rebecca Marder), di contrastare l’accusa che mira a incolpare l’imputata, prototipo di un nuovo genere di killer che in futuro diventerà inarrestabile: la moglie che sgozza i mariti.
Foto: Rebecca Marder, Isabelle Huppert e Nadia Tereszkiewicz