QUELLE CURIOSE ANALOGIE CON SERGIO LEONE
The public enemy (Nemico pubblico) è il terzo film del genere gangster, presentato alla rassegna Pre-Code al Palazzo dell’Esposizione, ed è l’unico finora che non presenti personaggi protagonisti di origini italiane. Sia Paul Muni in «Scarface», che Edward G. Robinson in «Little Caesar» affrontano, infatti, ruoli tipici di un malessere sociale tutto nostrano, malauguratamente esportato Oltreoceano come bagaglio clandestino, insieme al fenomeno dell’emigrazione, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. Eppure – sembra paradossale – soltanto in «The public enemy» ho intravisto cellule di quel germe cinematografico che ha poi generato nel 1984 il capolavoro assoluto del gangster-movie che è «Once upon in America» del nostro Sergio Leone.
Due, a tal proposito, i particolari da analizzare. L’italianità di Scarface e di Little Caesar è caratterizzata in maniera quasi grottesca, caricaturale. Paul Muni esagera le movenze, per esempio, sottolinea gli sguardi, gesticola troppo per regalare il made in Italy al suo personaggio; Robertson addirittura si immedesima nel tipo italico e riesce a rappresentare l’origine di una razza perfino attraverso una simbiosi fisica. Ognuno è bravo a suo modo, ma ciascuno commette, a suo modo, un errore: ridicolizzare il personaggio. Infatti, guardando le loro performance si ride, perché i loro atteggiamenti sono spesso buffi, simpatici, goliardici. Tipici italiani. Tale forzatura però allontana il film dalla verità che è molto più efferata e fredda.
William Wellman, invece, prende una storia tutta americana (dal racconto «Beer and Blood» di John Bright e Kubec Glasmonson) e la ripropone rispettando le intenzioni degli autori, costruendola e ambientandola senza orpelli interpretativi. Ne vien fuori un film che mai scivola nel ridicolo, e mai cerca di sfuggire alle responsabilità che l’America ha nei confronti dei suoi cittadini. È un attacco critico pungente che Wellman si propone di sferrare; e per tentare di centrare il bersaglio sceglie l’arma della crudeltà neorealista (diremmo noi) di un personaggio nato per essere un nemico pubblico. Al suo fianco c’è il fedele amico, il quale è pronto a lasciare la donna che ama per andare con l’altro a giustiziare il traditore. E non fecero lo stesso Max e Noodles nella New York di Sergio Leone? La cinepresa del nostro cineasta non fu anch’essa sempre pronta a penetrare le ferite di una realtà spietata con tutti i protagonisti? Anche Leone scelse una storia tipica americana (The Hoods di Harry Gray) per dar vita al suo capolavoro.
Il secondo punto riguarda la sequenza temporale. La storia inizia nel 1909, quando Tom e Gwen sono due ragazzini, uno più grande, l’altro più piccolo. Cominciano la carriera delinquenziale eseguendo furti, con poca destrezza e molta velocità nelle gambe, poi i due crescono, si perfezionano e gli impegni diventano più ardui, fino a quando nel 1920 – sono ormai adulti – entrano nel giro del contrabbando di alcolici. E la banda di Max e Noodles non persegue le stesse tappe? Con Leone fu il piccolo Dominic a «inciampare», con Wellman è toccato a Gwen (da grande, però).
Queste considerazioni fanno di «The public enemy» un gran film. Anche James Cagney appare come un attore decisamente moderno: il pugnetto affettuoso che, di volta in volta, sfiora il mento dell’amica, del compagno, del rivale, della mamma, diventa un segno distintivo tipico dell’americano scapestrato; il sorriso con il labbro inferiore sporgente da un lato è l’antenato della smorfia di tanti attori di epoca più recente. La recitazione di Cagney si allinea perfettamente alla regia di Wellman. Se il primo azzarda atteggiamenti da giovane americano anni ’50, il secondo, si concede inquadrature, per l’epoca, temerarie. L’automobile che sfreccia sopra la telecamera, mostrando un effetto che i futuristi avrebbero molto apprezzato. Le mitragliatrici riprese dal retro, come se l’obiettivo fosse l’occhio che prende la mira e poi s’allontana all’indietro. Meno incisiva stavolta, anche se con un décolleté mozzafiato, la partecipazione di Jean Harlow, che pare sia stata chiamata sul set dopo la rinuncia di Louise Brooks (la brunetta sfacciata da cui Crepax trasse ispirazione per il fumetto di Valentina). Invece, ancora una volta, si nota la deliziosa Joan Blondell, che in questa rassegna ha partecipato a ben quattro pellicole, e sempre il suo viso ingenuo e spiritoso ha «passato lo schermo», conquistando favorevoli consensi tra il pubblico.
In definitiva, bisogna dirlo senza troppi giri di parole, Wellman decide di squarciare, con irruenta veridicità (molto più di quanto abbiano fatto altri suoi colleghi), il velo protettivo dei benpensanti e di mettere in ridicolo le autorità americane indifferenti di fronte al problema del contrabbando d’alcolici durante il proibizionismo; di mostrare al mondo com’è semplice – già nel 1931 – andare in un negozio e comprare una pistola (talmente facile che Tom preferisce rubarne due!). Il codice Hays, quando nel 1934 divenne effettivo, si limitò a far togliere un paio di scene: quella in cui si vede un sarto che ammicca mentre prende le misure alla corporatura del protagonista; e una colazione a letto tra Tom e la donna del boss: in entrambe le sequenze qualcosa di eccessivamente torbido disturbava i censori. Se il sarto fu categoricamente epurato, il ciak della colazione a letto si dovette rigirare in sala da pranzo!
Foto: James Cagney e Jean Harlow