NON È PRUDENTE FAR ENTRARE I VINTI IN CASA PROPRIA
Premessa. La recensione è corredata di un’immagine insolita (e provocatoria) per mancanza di altre fotografie decenti da pubblicare: una sola sul sito del Quirino e a bassissima risoluzione (non utilizzabile), e altre poche, rintracciate sul web, che ritraggono solo primi piani insignificanti. Inoltre è vergognoso che chi vuole occuparsi della fatica degli attori debba andare a elemosinare, a notte inoltrata, tramite conoscenze, la distribuzione delle parti, soltanto perché non si vuol stampare una locandina con personaggi e interpreti e quindi rendere gli attori riconoscibili. Queste difficoltà sono il segno evidente che in teatro nessuno ha più voglia di lavorare con professionalità, decoro e rispetto: soprattutto non si pensa più al bene degli attori. Unico obbiettivo oggi è risparmiare il più possibile: ma il teatro è un mestiere faticoso e non accattonaggio. Caro Coppolino, se fai salire tua figlia in palcoscenico, hai il dovere (da produttore e da padre) di darle un’identità; se non la rendi riconoscibile al pubblico, hai cancellato tua figlia. Ci vuole la locandina con la distribuzione del cast: è indispensabile per essere un buon produttore. E penso che, in qualche modo, possa giovare anche al genitore!
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A Davide Sacco che nel sottotitolo chiede apertamente Why don’t you stop the show? (perché non volete fermare lo show?) rispondo: perché fuori c’è aria di guerra e preferisco la guerra finta in palcoscenico, preferisco l’odio fittizio dei personaggi inventati da un grande autore, anziché attraversare la strada – come realmente è accaduto al termine dello spettacolo – e trovare un muro di polizia, in divisa antisommossa, schierato, a mezzanotte, a difesa di Palazzo Chigi per paura di attacchi sovversivi ai danni della sede del governo. Tralasciamo i motivi che possono essere tanto giusti quanto sbagliati, ma credo sia sufficiente questa apocalittica visione notturna per far luce sullo spaccato cruento e crudele ideato da Shakespeare e rielaborato da Sacco. Il «Tito Andronico» è certamente la tragedia più sanguinaria del Bardo, e la riscrittura non ne ha risparmiato nemmeno una goccia, se non la carneficina dei molti personaggi soppressi dal testo originale.
Il Titus, che ha aperto la stagione del Quirino di Roma, è un adattamento ben congeniato. Con l’obbiettivo sempre focalizzato sulle guerre in atto, il nuovo testo punta ossessivamente alla visione di pace quanto mai realistica, ossia impossibile. L’odio e la violenza diventano un’abitudine tra vinti e sconfitti, cosicché l’agognata pace dura il tempo di un giorno, quello dedicato ai festeggiamenti della vittoria, oppure quell’altro in cui si desidera la morte per sfinimento dal dolore e dalle ingiustizie. La guerra – si dice in scena – è un ciclo infinito che nessuno può fermare; la guerra non è sul campo, ma si annida nell’animo della gente che deve compiere la propria vendetta per ristabilire la giustizia e stanare un colpevole. Sono tante le citazioni che si possono annotare per trovare riferimenti all’attualità, ma anche all’eternità. Abilmente Sacco introduce la parola «striscia» associata alla patria che è soltanto il possesso di una terra che si mescola ad altra terra, come a voler dire che la terra è di tutti e ad essa apparteniamo. Ma a vedere Titus, viene il sospetto che così non sia, che così non potrà mai essere.
C’è un risvolto assai arguto nella vicenda shakespeariana: far entrare i vinti in casa propria non è mai prudente. Il generale Tito Andronico consegna Tamora, la regina dei Goti, al nuovo imperatore Saturnino che la sposa, ma lei porta con sé i due figli e Aronne, la sua ancella/amante (nell’originale è il suo schiavo/amante, un moro), quanto basta per formare un piccolo esercito di vendicatori, un manipolo di cani arrabbiati che iniziano a ordire vendetta. E sangue porta sangue, fino allo sterminio. Oggi si direbbe, genocidio. Sacco, però, si distacca da qualsiasi schieramento, e fa bene. Resta neutro nella sua riscrittura, critica la violenza al punto che, per indignazione, sembra voler innalzare la bandiera della morte, del sangue, del dolore, della disperazione che è la sua e la nostra.
Dunque, sul piano letterario, tutto bene. L’adattamento asciuga i tempi della tragedia, riduce i personaggi (quindi i costi), si concentra sul dramma dei protagonisti e sulla sequela di uccisioni. C’è però una realizzazione scenica che non può passare in secondo piano. Così come c’è la straordinaria prova di Guglielmo Poggi come Saturnino, capace di dare al personaggio fragile e viziato un’anima dannata, ossessionata dal peso del potere: in tanta sanguinaria tragedia riesce a trasmettere anche inaspettata (ma non stonata) ironia. Francesco Montanari, nel ruolo del titolo, trova il giusto vigore, sentendosi finalmente a suo agio nella parte, soltanto nell’ultima scena, sospeso su una pedana, mentre serve l’ultima cena ai suoi commensali; prima, purtroppo, appare trattenuto; si sente che vorrebbe far di più, dar di più, ma non può; e il lungo monologo delle stelle (all’inizio del secondo tempo) resta un freddo commento a un’immagine in silhouette troppo fissa, troppo lunga: diciamola tutta, non si può affossare un simile pezzo teatrale in una poltrona. È una scelta registica molto discutibile. Parole ispirate dalle stelle hanno bisogno di aria, non di una Chesterfield imbottita. Sarebbe bene che il generale conduca la sua scena secondo lo schieramento che adotterebbe sul campo della sua angoscia di padre martoriato.
È su queste scelte, cosiddette innovative, che la regia risente di qualche peccato. Troppa ispirazione cinematografica, soprattutto nel primo tempo, in perfetto stile Blade Runner, dove gli attori spesso vagano in una penombra che li rende irriconoscibili, ombre imperscrutabili, e non giova alla teatralità di un’opera che invece richiede chiarezza perché così vicina al nostro dolore quotidiano. Non azzardo paragoni con gli esempi del passato, ma l’impatto offerto da questa plumbea illuminazione tende a nascondere ciò che invece dovremmo vedere meglio, proprio perché finzione e non realtà, per renderci conto delle devastanti conseguenze dell’odio. Dovremmo osservare bene, per esempio, la violenza, la mortificazione, che patisce una donna stuprata per poterla poi proteggere anche dalle parole dette a sproposito. Sono immagini certamente forti, ma se sono state scritte per essere rappresentate, non possono essere oscurate dal buio. Nel foyer una nota avverte che il sangue in scena è finto: «La visione è consigliata ad un pubblico consapevole». Ma no! Il pubblico va reso consapevole del sangue che si sparge ogni giorno, in ogni casa, e in tutte le parti del mondo; e non solo dove si combatte. Il male che siamo capaci di fare, la finzione del male, deve essere accecante affinché non si disperda nell’oblio.
Apprezzata la scena di Fabiana Di Marco che concepisce uno spazio di recitazione in palcoscenico posto su due livelli, unito da un ponte levatoio in metallo, e una discesa agli inferi, nell’ampia piazza del popolo che è la platea del teatro dimezzata di poltrone (eppoi si vuol risparmiare sulle locandine!). Il popolo siamo noi spettatori che ascoltiamo, osserviamo e giudichiamo, senza poter intervenire, senza poter interrompere lo show che si svolge lì, davanti a noi, in mezzo a noi. Il popolo è sempre inerme di fronte alle vendette (che sono le cause delle nostre disgrazie) dei piani alti, del potere, degli eletti. Siamo noi le vittime di ogni decisione politica, che sia di pace o di guerra, o di vendetta.
Con microfoni (esagerati)