SORSI DI MORTE IN MILLE BOTTIGLIE DI WHISKY
Leonardo Lidi, in un’intervista pubblicata sul programma di sala, lancia una giusta provocazione: «Ho visto molte rappresentazioni della Gatta sul tetto che scotta, ma nessuna mi ha reso felice. Al contrario, mi hanno fatto arrabbiare … Adesso vendicherò io questo testo». Quindi – provocazione per provocazione – mi sento in diritto di poter affermare che la cosa migliore di questa edizione diretta dal regista arrabbiato è il programma di sala distribuito a pochi eletti. Interessantissimo. Un libricino da leggere attentamente per comprendere tutte le motivazioni che hanno spinto Lidi a mettere in scena l’opera di Tennessee Williams. Nelle sue parole c’è logica d’intenti, c’è ordine nei pensieri, e soprattutto si mette a fuoco la continuità artistica che ha portato il regista dello Stabile torinese a passare dalla trilogia sulla disgregazione della famiglia aristocratica fotografata da Cechov a quella tradizionale borghese rivisitata dallo scrittore americano.
Ricorda ancora Lidi che, un paio d’anni fa, Lavinia Mennuni, gatta distesa su un comodo seggio senatorio, sostenne che la donna avrebbe dovuto trovare nella maternità la sua massima aspirazione: «Più che indignazione, la frase mi provocò ilarità», commenta il regista. E, per rispondere all’infelice esternazione, ha individuato nel personaggio di Maggie quella stessa gatta che vuole coronare l’ideale d’amore con una gravidanza che però non arriva: pretesto per un appropriato sberleffo a chi la pensa come la senatrice.
Inoltre, la commedia offre la possibilità di misurarsi ancora con il tema dell’omosessualità, argomento che, però, Lidi affronta con un’elegante trovata portando in scena il personaggio di Skipper (nell’originale è soltanto evocato, senza mai apparire, come presunto amante di Brick), affidandogli la parte di colui che riflette la verità sugli altri trasportando uno specchio, a volte la protegge nascondendo i soggetti più deboli dalle bugie nelle quali sono costretti a vivere, e più spesso diventa l’aguzzino di Brick vestendo la nudità demoniaca che spinge l’amico all’alcolismo. Skipper, in realtà, è morto suicida, e pare abbia avuto un rapporto intimo con Maggie per dimostrare la sua virilità e scagionare Brick, di cui è innamorato, dall’accusa di pederastia. Tutto questo dramma c’è nella realizzazione (che chiude una fantastica stagione firmata Kustermann) vista al Vascello, ma è accarezzato con molta delicatezza, quasi sfiorato dalla presenza metafisica del suadente fantasma, che invece di rafforzare quei concetti scabrosi per l’epoca (1955) li rende eterei ed eterni confondendoli con i movimenti di un servo di scena dalle forme sfacciatamente elleniche: Riccardo Micheletti è, infatti, un bronzo di Riace che cammina consegnando sorsi di morte in bottiglie di whisky.
La regia, invece, tralasciando i fasti cinematografici che tanto indispettirono l’autore, riporta il testo all’integrità originale, preferendo mettere in rilievo, proprio per far crollare la serenità della famiglia tradizionale, i malesseri provocati dalla menzogna. Monica Capuani, traduttrice del testo, predilige il termine ipocrisia, forse anche per un omaggio al teatro e ai suoi attori, antichi upocrités. Ma questa attenzione sulla falsità dei rapporti, sulle bugie, che qualcuno ancora si ostina a definire «a fin di bene», finisce con l’esaltare la loquacità spudorata di Maggie (Valentina Picello prontissima a sfruttare le astuzie e l’umorismo della giovane moglie intraprendente) e la rustica verbosità di Pollitt padre (magistralmente interpretato da Nicola Pannelli), rispetto ai silenzi e alle sofferenze del protagonista Brick: ottimo Fausto Cabra, bevitore incandescente «perché la gente a volte fa cose stupide», in attesa del clic della vivacità, riesce a far rivivere anche il devoto mutismo di Skipper con un inossidabile romanticismo.
Mentre la vulcanica Picello, in abito cilestrino, si aggira senza scarpe, con passo felpato di gatta tra le bottiglie di whisky tracannate dal suo uomo, facendo slalom tra un pettegolezzo e una menzogna, e cercando di arrivare abilmente alla meta, sul Pannelli, in cravatta rossa (molto americana, ultima moda!), mi piace aggiungere che il suo contadino arricchito, padrone di 28 mila acri di terreno fertilissimo, è il personaggio che più degli altri ci riporta alla lungimiranza di Cechov, al Giardino comprato inaspettatamente da Lopachin (figlio del contadino) che sa metterlo a rendita con semplicità di calcolo, costruendo villini da affittare. Anche Pollitt ha chiaro il concetto della proprietà da salvaguardare più della famiglia (Lopachin per salvare il giardino perde l’amore). Entrambi parlano di denari con la scioltezza della sincerità più schietta e palesemente volgare: una lingua pratica che resta sospesa tra le ataviche incomprensioni di Brick e le ipocrisie di tutti gli altri concentrati esclusivamente sugli interessi dell’eredità.
Dunque, tutto bene, sembrerebbe! Cos’è che non va, allora, se anche Giuliana Vigogna e Giordano Agrusta ricoprono bene i loro rispettivi ruoli? La prima a uscir fuori dallo stile della recitazione è Orietta Notari, temerario demonio che urla come un Flegiàs sulla riva stigiana, madre di Brick, che al solo mostrarsi fa intuire tutt’altri motivi, non previsti dall’autore, che hanno spinto il figlio all’alcolismo. Quella donna, così vestita, così scapigliata, così impossessata, non potrebbe mai essere la moglie ingioiellata di un uomo altezzoso in cravatta rossa. Non è un’ipotesi credibile nemmeno nella finzione teatrale. Neanche la rigorosa scena di Nicolas Bovey riesce a contenere un quadro tanto improbabile, restando indifferente alle urla patetiche, anzi le rigetta, come ha fatto con i palloncini volati in platea in una tempesta causata dalla ribellione della verità.
Foto: Greta Petronillo (dietro), Valentina Picello e Fausto-Cabra (seduti) (© Luigi De Palma)