«MI DOVETE CREDERE: SCAPPATE, SCAPPATE!»
Andate! Andate a vedere Paola Minaccioni che interpreta Elena Di Porto, detta Elena la matta. Andate per ascoltare finalmente un monologo che ha la ragione d’essere monologo. Andate per vedere Paola, «la furia del palcoscenico». Correte per assistere soprattutto alla cavalcata della memoria. Pardon, Memoria, con la maiuscola: perché di questi tempi s’è persa l’educazione civile di quella Memoria che per anni abbiamo ricordato – senza essere troppo convinti, ahimè – per commemorare le sciagure del ’43 e del ‘44. Oggi, novembre 2025, dopo mesi di violenti schieramenti e dannose zuffe, il monologo di Paola/Elena acquista una forza politica inimmaginabile ancor più che storica. Un monologo, scritto da Elisabetta Fiorito, e liberamente ispirato al libro di Gaetano Petraglia, «La matta di piazza Giudìa», edito da Giuntina; un monologo, dicevo, che è una voce forte, unica, «autentica», che s’impone sulla nostra confusione a ricordare il dramma del 16 ottobre 1943, quando squadroni di SS rastrellarono il ghetto di Roma, deportando ad Auschwitz più di un migliaio di ebrei romani, che nella disperazione credevano, illusi, nella protezione di un papa che non disse una parola, anzi rimase zitto, in silenzio, a contare soltanto le sue pecorelle col crocifisso. Come se gli altri, i giudei, fossero figli di un Dio minore.
Proprio come Elena Di Porto, considerata pazza prima ancora di essere ebrea. Pazza perché donna difficile da domare, di spirito eccessivamente indipendente, perché donna troppo orgogliosa, perché donna indomita, perché donna in cerca di libertà, tanto da trovare sollievo addirittura nel lavoro, più che vicino al focolare. Certamente una matta così, durante il fascismo, era da rinchiudere in manicomio. Ed Elena ci andò ben quattro volte a Santa Maria della Pietà, l’ospedale psichiatrico costruito dalle parti di Primavalle. Fu anche arrestata per essersi ribellata prima al marito «inconcludente» (dice, per non dire ubriacone), poi a un gerarca, una vera carogna. La furia di Elena, che la Minaccioni cavalca per oltre un’ora, è una progressiva resistenza femminile al dominio della figura arrogante del maschio, il quale, all’epoca, trovò nella matrice fascista una dottrina più che primitiva. Mentre, invece, lei, Elena, vola avanti con la sua determinazione, lontana da ogni paura, ritrovando il sorriso quando incontra Lola, la prostituta spagnola, o quando il contrabbando le assicura un pasto al giorno, vivendo sempre all’insegna della verità.
Infatti, a ben vedere, prima che donna e giudea, la matta è colei che cerca giustizia, parità, eguaglianza. Sì, perché anche tra i figli di Abramo, ci avverte lei stessa all’inizio, esistono discriminazioni: a Roma, per esempio, coloro che chiamano gli israeliti, cioè i ricchi, si sono trasferiti in zone più eleganti e distinte; mentre gli ebrei sono rimasti a vivere nella miseria del ghetto. Non c’è fascismo e non c’è nemmeno maschilismo in questa discriminante, eppure è un’ingiustizia che ha forgiato e rafforzato l’animo di una ribelle, punita dalle abitudini sociali, dal regime, e dalla sua gente che la sera di venerdì 15 ottobre 1943 non ha saputo riconoscere la verità nelle parole della sua Cassandra: «Mi dovete credere: scappate, scappate!» È il grido disperato di Elena bagnato dalla pioggia e dall’indifferenza.
Raccontato così, sembra il monologo perfetto. E in gran parte lo è. Esiste, infatti, un contesto registico che non ma sottovalutato. «Elena la matta» non è soltanto la magnifica interpretazione della Minaccioni. Sarebbe ingiusto non considerare la parte musicale che con alcuni brani d’epoca («Mille lire al mese», «Maramao perché sei morto», «Pippo non lo sa» e altri) rielaborati dal maestro Valerio Guaraldi, costruiscono abilmente differenti ambientazioni: più leggere o più drammatiche. Incastonati bene anche diversi interventi con i quali le sonorità dialogano con l’attrice: i fiati di Claudio Giusti rispondono sempre con ironia alla follia di Elena. La scena di Alessandro Chiti è astratta, quasi impalpabile, sembra perfino incredibilmente teatrale, dove gli spazi non esistono (a parte quelli per i musicisti), eppure sono ben delimitati, usati sempre con logica e chiarezza grazie all’uso accurato degli oggetti deposti in proscenio che, di volta in volta, ne indicano i luoghi. Belle anche le luci di Gerardo Buzzanca.
Ripeto, sembra il monologo perfetto, se non fosse per un’eccessiva sproporzione del volume del microfono della protagonista, talvolta assordante. Ho apprezzato l’aiuto quando la Minaccioni ha cantato Le mantellate, perché in quel momento c’era un equilibrio con l’accompagnamento degli strumenti, ma la recitazione doveva, a mio avviso, essere sostenuta con maggior sensibilità: il testo la richiede, il dramma – quel tipo di dramma – esige una spietata verità e non ha bisogno di essere intensificato. Con due musicisti in scena che suonano dal vivo, il microfono dovrebbe essere usato come un terzo strumento, non come un semplice supporto tecnico.
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Elena la matta, drammaturgia di Elisabetta Fiorito, liberamente ispirato al libro di Gaetano Petraglia, «La matta di piazza Giudìa», edito da Giuntina. Regia di Giancarlo Nicoletti. Con Paola Minaccioni e con i musicisti Valerio Guaraldi e Claudio Giusti. Scene, Alessandro Chiti. Costumi, Giulia Pagliarulo. Musiche, Valerio Guaraldi. Luci, Gerardo Buzzanca. Produzione, Altra Scena | Goldenart Production. Al teatro Sala Umberto, fino al 16 novembre
Con microfoni talvolta enfatici
Foto: Valerio Guaraldi (chitarra), Paola Minaccioni e Claudio Giusti (sax) (© ???)