«CHE TERRIBILE NOTTE!»
Nelle esili cantinelle, il mondo artigianale del teatro
Rubo direttamente a Frankenstein la battuta per titolare questa esperienza vissuta al Vascello che ho raggiunto per assistere al dittico dedicato al mostro ideato da Mary Shelley e messo in scena, per Romaeuropa Festival, dalla compagnia Motus di Daniela Nicolò & Enrico Casagrande. In Frankenstein_dipstych si riflettono l’uno nell’altro due spettacoli: alla storia d’amore (love story), tra la scrittrice e la sua creatura, s’oppone il capitolo dell’odio (history of hate) perché l’orrore alimenta l’odio; e quando il mostro scopre l’orrore su se stesso tutto e tutti diventano bersagli di odio. Parola oggi abusata come sinonimo bellico che sta per distruzione, mentre invece letterariamente l’odio sarebbe la non creazione, ossia il contrario dell’opera di uno scrittore. E questo vuol essere il senso del dittico: l’opera dello scrittore è creazione, quindi amore; e la creatura nata dalla penna d’amore non morirà mai. Ma ogni creatura, pur se nasce innocente, viene messa alla prova dal mondo malvagio e così il bene dell’infanzia e il calore degli affetti si trasformano in odio.
Condensati i due atti in poche righe, passiamo alla visione del doppio allestimento. Inizialmente, col pubblico che prende ancora posto, si vedono già in terra due esili cantinelle a sinistra e due a destra, unite ad angolo retto verso il fondo. Anche se con le luci di servizio, s’intuisce che ogni coppia di aste regge dei teli bianchi ammonticchiati, in attesa di essere issati. Alle lunghe stecche di legno, infatti, sono legate quattro funi che salgono in graticcia. Durante la love story, quando le vele prendono il volo verso l’alto, in varie combinazioni, forme e movimenti, si assiste a un gioco scenico spettacolare, raffinato, certamente non inedito, ma affascinante. Soprattutto, in questa trovata scenografica si legge il mondo artigianale del teatro. Il tessuto in scena, mosso abilmente dalle quinte, può apparire come semplici elementi decorativi molto astratti ma suadenti, ma può anche prendere le sembianze di montagne, di ghiacciai, di capanne, poi possono diventare braccia che attendono, braccia che cercano, braccia sempre tese. Insomma scenograficamente è tutto molto bello e significativo. E la costruzione degli effetti luminosi di Theo Longuemare è straordinaria.
Un palcoscenico così preparato, capace di mutare visivamente il sentimento di una scena, dovrebbe accogliere un fatto importante, eclatante. Un fatto teatrale, naturalmente. E invece di teatrale ci sono soltanto gli sbuffi di fumo che, di tanto in tanto, escono dalla quinta e annebbiano il vuoto lasciato dal racconto che si dipana con estenuante lentezza e con sterili monologhi, piatti e soprattutto monotoni. Che terribile notte!
«La seconda parte, però, è pure peggio della prima», ha detto uno spettatore all’uscita. Certo, hanno tolto le cantinelle! Un altro: «Io, sinceramente, mi sono proprio annoiato», dove l’avverbio sostituiva il tempo di uno sbadiglio. Il sottoscritto, invece, non si è lasciato prendere dalla noia, ma (dato che in scena non accadeva nulla, a parte uno che mangiava il radicchio crudo e un altro che faceva volare un elicottero) ha finalmente osservato con dovizia quanto i filmati e le proiezioni siano controproducenti alla macchina teatrale. La scena riservata all’odio, in pratica, indicava un set cinematografico, con telecamera e vari schermi: sul fondo uno più grande, come quelli del cinema. Un attore si filmava con l’obiettivo montato su un carrello, un altro con il cellulare: le loro proiezioni erano rimandate sugli schermi.
Con video e microfoni
