23 ottobre 2025

«L’importanza di chiamarsi Ernesto», di Oscar Wilde (regia, G. Gleijeses)

«L’importanza di chiamarsi Ernesto», di Oscar Wilde (regia, G. Gleijeses)

Roma, Teatro Sala Umberto
22 ottobre 2025

«TUTTO FUMO E NIENTE ARROSTO», DISSE G. B. SHAW

Geppy Gleijeses ricorda nelle note di regia che L’importanza di chiamarsi Ernesto è stata definita da critici autorevoli «la commedia perfetta». Giusto rammentarlo, perché The importance of being earnest è opera talmente perfetta che sarebbe prudente non rappresentarla. Fa parte di quel gruppo di commedie intoccabili, che per loro naturale immobilità letteraria e intellettuale rischiano di muffire nella soffitta di un museo. Allora ha fatto bene Gleijeses a riprenderla con l’intenzione di scuoterla con nuova vitalità e restituirle il movimento frizzante del palcoscenico. In verità, già venticinque anni fa egli stesso interpretò il ruolo di John Worthing, sotto la direzione di Mario Missiroli e sempre con Lucia Poli nelle vesti di Lady Bracknell. Era il 2000, periodo complicato per il sottoscritto poter andare a teatro, pertanto non riuscii a vedere quell’edizione.

Alla prima rappresentazione del 14 febbraio 1895 il ruolo di Worthing fu creato da George Alexander. E grazie alle cronache dell’epoca siamo informati che il marchese di Queensberry, padre di Alfred Douglas, «intendeva fare una piazzata in quell’occasione», e soltanto l’intervento del Primo attore fece cancellare la prenotazione del marchese, cosicché la commedia fu applaudita senza subire interruzioni. Piacque a tutti, eccetto che a G. B. Shaw, secondo il quale era «tutto fumo e niente arrosto.» «Ringraziamo dio per il fumo», commentò Wilde accendendosi una sigaretta. Di lì a poco, dall’esaltazione ricevuta in ribalta, lo scrittore sarebbe salito sul banco degli imputati e le repliche del suo capolavoro furono interrotte per «l’ostilità della gente».

A riascoltare oggi la sequela di battute sferzanti che la commedia contiene, l’ironia sempre elegante e intransigente, ci si rende conto, ancor meglio, della grandezza di Oscar Wilde che, a bufera già scoppiata, e alla vigilia del tracollo riusciva a mantenere alto lo spirito della leggerezza che alimenta il desiderio della sopravvivenza. Credo che questo sia l’insegnamento più evidente che il riallestimento suggerisce. No, ce n’è un altro, e non è da poco: com’erano intelligenti le donne di una volta, riuscivano a tener testa agli uomini senza doversi battere contro il patriarcato. Nella commedia, infatti, aleggia una ventata di insospettabile sano femminismo, molto educativo. Inoltre, l’autore prosegue il discorso sull’ambiguità di una doppia vita che, se in Dorian Gray era un tema affrontato come trauma della giovinezza che fugge e della perduta bellezza, qui diventa un gioco innocente chiamato Bunbury.

Non a caso Gleijeses sceglie come quadro di fondo per abbellire l’appartamento di Algernon, il ritratto di San Sebastiano eseguito da Guido Reni. Un’opera che segnò il viaggio di Wilde verso la Grecia, quando fece tappa a Genova dove il dipinto era esposto. San Sebastiano, per Wilde offeso dalla crudeltà del carcere, simboleggiò la giovinezza eterna senza peccato (in contrasto con quella di Dorian), la vittoria della bellezza sul dolore patito ai lavori forzati, al punto che, terminata la detenzione, Oscar prese il nome di Sebastian, Sebastian Melmoth fu nella seconda vita, purtroppo breve.

Le commedie di Wilde si basano sulla parola, fatti ne accadono poco. Tant’è che leggendo il testo ci si accorge che non mancano mai divanetti, seggiole e panche: elementi che servono agli attori per sedersi e recitare abilmente le ironiche sentenze, in un gioco attoriale che ha per scopo il dire le battute meglio dell’altro. Infatti, soltanto se la recitazione è più che perfetta, l’operazione acquista valore, altrimenti perde di senso. Il regista in questo caso va certamente lodato per il coraggio di aver preso una «commedia perfetta», scritta nel 1894, e riproposta così come fu pensata (o quasi). Le scene, ma soprattutto i costumi richiamano a un allestimento tipico del principio del XX secolo: ottima la scelta di Chiara Donati di sostituire gli abiti ingombranti e scomodi di fine Ottocento con quelli più snelli del decennio successivo. Tuttavia, la regia si è preoccupata di far sedere e alzare gli attori, di far loro ripetere corsettine e gesti fuori contesto, mentre avrebbe dovuto concentrarsi alla cura della recitazione. E la cura necessaria è mancata.

Tutti gli attori – eccetto Lucia Poli – sono rimasti estranei al mondo intellettuale di Oscar Wilde: privi di qualsiasi vizio, laddove il vizio diventa il frammento dell’esistenza degli dèi, quindi il trampolino per innalzarsi all’importanza del non far niente, che diventa una virtù e non più una oziosa pigrizia. Le battute, in scena, invece, sembrano sempre soltanto uno scherzo, in Algernon addirittura prendono una piega infantile, irrimediabilmente lontane dalle inquietudini dell’autore. Sono ironie leggere, ma disperate; sono battute frivole, ma cólte. L’esperienza scenica della Poli detiene queste qualità. La sua dizione pulita, quasi che si distacca da se stessa, fa la differenza. La respirazione che adotta la sostiene e la innalza alla qualità richiesta dal copione. E, infatti, la Poli è colei che riscuote più risate. Perché la leggerezza di Wilde pretende una preparazione molto più profonda di quel che sembra.

Eppure l’idea di riportare in scena una simile opera, obbiettivamente d’antan, e di riproporla, grosso modo, come fu fatto all’epoca del debutto, senza stravolgimenti né aggiornamenti (passi la citazione di Totò vestito a lutto), senza sentire la necessità di svecchiare l’antica commedia da salotto, è un’impresa lodevole che, ad ascoltare le reazioni del pubblico, ha anche riscosso una meritata vittoria. Non solo per la questione della muffa museale (di cui abbiamo detto in apertura), ma perché – secondo un criterio teatrale molto semplice – quando un testo è ben scritto (grazie alla ottima traduzione di Masolino D’Amico) e la storia fa presa sugli spettatori, i quali partecipano e si divertono, diventa un vero piacere osservare che c’è qualcuno che si diverte anche senza volgarità e senza ricorrere al gossip. Ridere, si dice, fa bene al cuore, ma ridere con Oscar Wilde fa certamente bene anche alla testa. E alla nostra educazione. (fn)
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L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde. Traduzione di Masolino D’Amico. Regia di Geppy Gleijeses. Con Lucia Poli (Lady Bracknell), Giorgio Lupano (John/Jack Worthing), Maria Alberta Navello (Gwendolen Fairfax), Luigi Tabita (Algernon Moncrieff), Giulia Paoletti (Cecily Cardew), Bruno Crucitti (Reverendo Chasuble), Gloria Sapio (Miss Prism), Riccardo Feola (Merriman e Lane). Costumi, Chiara Donato. Scene, Roberto Crea. Luci, Luigi Ascione. Produzione, Dear Friends; Artisti Associati. Alla Sala Umberto, fino al 2 novembre

Con microfoni non invadenti

Foto: Lucia Poli (© ???)

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