E NON ERA NEMMENO YOGURT!
A volte succede che le poche note che si leggono sui comunicati – quelle solitamente scritte dalla compagnia – e che si piccano di accendere un bagliore di curiosità nello spettatore, spieghino perfettamente quel che accade sulla scena. Con l’acqua alla gola è così presentato: «Un appartamento invaso da scatole di yogurt scaduti e illuminato solo dal bagliore di un frigorifero: è qui che prende vita una commedia nera e surreale, in cui i confini tra ironia e disperazione si sfumano fino ad annegare su sé stessi. Sul palco, i giovani attori, forti di un affiatamento travolgente, trascinano lo spettatore in un viaggio che alterna ironia feroce e visioni apocalittiche, fino a un epilogo in cui il quotidiano si trasforma in rivelazione.» Dunque, che cosa accade in questo appartamento invaso da contenitori di yogurt? Sinceramente il suggerimento – l’aiutino, direbbe qualcuno – che gli artefici ci offrono, non chiarisce molto. Oltre al titolo, il giovane autore Francesco Benedetto avverte la necessità di aggiungere un sottotitolo, Sulla punta della lingua: evidentemente anche a lui è sorto qualche dubbio sulla comprensione della presentazione del suo progetto.
«Con l’acqua alla gola», un titolo che ricorda un famoso giallo hitchcockiano, ci riporta alle atmosfere del mondo del noir, mentre leggendo «Sulla punta della lingua» tornano alla mente i vecchi quiz di Mike Bongiorno. Eppure, osservando il trambusto in scena, le due diciture sono precise e riscontrabili, ma se la prima appartiene a tutti e cinque i personaggi, la seconda si riferisce esclusivamente a Marco, il quale non riesce a pronunciare le parole che trattiene da tempo e che gli restano sulla punta della lingua. Detto questo – chiariamo meglio le nostre intenzioni – non si vuol fare un processo alla titolazione, piuttosto si vorrebbe cercare una porta accessibile alla semplificazione del testo che – a differenza del buon livello interpretativo (Paolo Cutroni è al top) – resta assai enigmatico.
La commedia s’apre con una storia d’amore che non decolla: «Se son rose fioriranno», dice una voce femminile al telefono. Evidentemente la sconosciuta ha davvero scariche le sue cartucce sentimentali se ricorre a un proverbio tra i più usati. La frase scatena la furia di Giovanni che vive tra i contenitori di yogurt: li apre, trangugia con le dita e getta in terra il recipiente. Forse sperando che da lì fioriscano le rose? Poi arriva Marco con una busta carica di confezioni di yogurt. Giovanni gli morde ferocemente il braccio. Marco subisce, ma cerca di placare la rabbia dell’amico che vuol rimanere solo con la sua delusione. Marco non lo ascolta, sembra che non abbia intenzione di abbandonare Giovanni alla disperazione: un atto di bontà, quindi. Invece gli confessa che all’interno dei vasetti di plastica che l’altro divora non c’era yogurt ma il suo sperma. Ora, a parte la quantità industriale di seme organico che Marco produce ogni giorno, la confessione (che obbiettivamente risulta forte) non trova né una causa che la giustifichi e nemmeno un effetto che dia un seguito alla rivelazione. Dunque a cosa serve questo esorbitante spreco di liquido seminale? Nessuno lo sa.
Poi arriva la madre di Giovanni che porta con sé, oltre a Ren (un’amica stralunata e intima), un gulasch vegano (sic!). I discorsi in scena si moltiplicano privi di logicità proprio come la pietanza che sarebbe a base di carne e che vegana non potrà mai essere. Nessun argomento viene condotto a termine, nessuna logica è apparente. Talvolta ne sortisce una battuta che spinge alla risata (va bene), tuttavia regna una gran confusione di argomenti. Una confusione volontaria che si ripete. Allora sorge una domanda: sarà caotico il testo o è sbagliata la lettura che ne ha fatto la regista?
Foto: da sin, Paolo Cutroni, Serena Sansoni, Elena Biagetti e Daniele Bianchini (© ???)