IL REALISMO CRUDELE DI UNA GRICIA DIETRO LE SBARRE
Oltre alla regia, Siddharta Prestinari firma anche l’adattamento di un testo che sembra essere stato scritto appositamente per le caratteristiche d’attore (e le abitudini culinarie) di Stefano Ambrogi: quindi non ci è dato sapere quanto il vestito cucito su misura sia quello originario di Carlo Picchiotti o se, appunto, l’abito è stato adattato per l’occasione. Il risultato comunque è che taglio e stile trovano sull’interpretazione di Ambrogi la quasi perfetta rifinitura (e sul quasi esporrò in seguito). Ineccepibile conflittualità, invece, si legge dalla rivalità dei due personaggi che danno vita a Le cose che t’ho imparato, una storia dall’aria trucida che si svolge nei pochi metri quadrati della cella di un penitenziario di massima sicurezza. All’anziano ergastolano burbero e prepotente, ma con un bagaglio pieno di avversità vissute, si contrappone la sprovveduta inesperienza del giovane archeologo, interpretato da Ermenegildo Marciante, finito in cella in attesa di giudizio.
Perché un apparente bravo ragazzo, dalla faccia pulita, viene rinchiuso in una cella con un ergastolano? Non è la prima regia della Prestinari che vedo, e anche stavolta mi ha colpito la sua capacità di trasmettere immediata curiosità alla platea che così viene catturata nel vortice della storia, senza alcun preambolo, né introduzione. Appena i protagonisti cominciano a parlare, senza che si sappia neanche chi siano, né dove si trovino, subito si intuisce che tra i due c’è qualcosa che non torna: due pianeti totalmente diversi entrano in collisione, una stranezza evidente che troverà la soluzione soltanto al finale. Innescare subito la miccia è l’arma vincente per tenere il pubblico col fiato sospeso, per concentrare l’interesse sul dialogo, e su quel che accade sul palco. Prettamente sul palco. Mi spiego: sul fondo c’è un grande schermo sul quale sono proiettate alcune istantanee, forse simboliche, o forse che riguardano il passato dei personaggi, insomma, sicuramente lontane dal dramma presente; ebbene, confesso di non saper descrivere le fotografie viste, talmente l’attenzione è stata catturata dalla scena, dal dialogo, dal rapporto che lentamente si tesseva tra i due sconosciuti.
Sotto questo fondale astratto la Prestinari ha costruito una scena assolutamente realistica, sulla quale la recitazione dei due attori ha trovato il miglior ring per esprimersi sulla crudeltà della vita carceraria, sulla verità delle ingiustizie, e nella prelibatezza di una pasta alla gricia, cucinata davanti agli spettatori. Da qualche anno Stefano Ambrogi è tra i miei contatti Facebook e, senz’ancora conoscere la sua recitazione, ho avuto modo di apprezzarne, in teoria, le capacità ai fornelli («la cucina ce l’hai dentro», dice il suo personaggio), tanto che a volte ho desiderato avere un posto alla sua mensa: tra foto di una gustosa pasta e fagioli, di una succulenta padellata di cozze e di una prelibata carbonara, le sue ricette hanno fatto breccia nei miei pensieri prima del suo modo di far teatro. Ma l’altra sera la combinazione dei due elementi ha confermato le mie supposizioni: l’acqua bolliva in una pentola sul fornello, quando il guanciale è stato messo a lacrimare in una padella, mentre in una ciotola nevicava il pecorino e in platea s’è diffuso un profumino eccelso. Tutto teatro iperrealistico, ed essendo orario di cena, appena i due si sono spartiti le porzioni, il pubblico è rimasto a bocca asciutta. Ma la crudeltà fatta agli spettatori si è subito spenta in un sorriso amaro, al confronto di quella più evidente che poneva due persone, sedute al tavolo, pronte a condire il loro pasto con il mutuo soccorso della parola, private com’erano della libertà.
Oltre al particolare culinario che testimonia, quanto il testo sembra costruito per Ambrogi, c’è comunque da esaltare le doti recitative dell’uno e dell’altro: più genuine il primo, più raffinate l’altro. Ma se per Marciante si può tranquillamente parlare di una maggior completezza, Ambrogi (ecco la spiegazione del quasi) dovrebbe attenuare certe esuberanze istintive, soprattutto nella parte iniziale, con le quali l’interprete vorrebbe sottolineare la sua asprezza nei confronti del nuovo coinquilino e della vita in generale. Insomma, è come quando nell’acqua della pasta ci si mette troppo sale. Dosare è il verbo più adatto per ingredienti e intonazioni. Inoltre, con la sua mole, in uno spazio esiguo (del palco e della cella), il dosaggio dovrebbe essere centellinato.
Foto: Stefano Ambrogi (a sin) ed Ermenegildo Marciante (© ???)
