IL RE SI PERDE IN UN BICCHIER D’ACQUA
L’Agamennone del poeta ellenico Ghiannis Ritsos mostra una sottile novità che fa da sfondo alla pena che deve scontare un re osannato dal popolo, «un re perfetto» com’è definito nel prologo. Agamennone, pur se acclamato vincitore in patria, sente su di sé l’ineluttabile condanna della vecchiaia. Dopo dieci anni trascorsi a capo dell’esercito greco in quel di Troia, su di lui ora grava il peso della fatica del tempo trascorso, anziché l’entusiasmo dell’eroe trionfante.
Il re diventa uomo. Infatti, è la decadenza dell’uomo. Fisica e morale. Ma non solo: c’è dell’altro.
«Preparami l’acqua per un bagno caldo», chiede alla moglie Clitennestra che lo accoglie in casa come un perfetto estraneo. E così comincia, da parte di lei, un sadico gioco fatto di acqua versata in un numero esorbitante di bicchieri: travasi continui, effettuati prima con una brocca e poi con le mani, goccia a goccia per tutto il tempo dello spettacolo. È vero: «Gutta cavat lapidem» dice il proverbio, la goccia scava la roccia. Quella goccia costante, nelle mani di una moglie che aspetta il marito da dieci anni, diventa l’arma letale che consuma e spegne ogni tentativo virile.
Non so quanto l’acqua faccia parte del testo originale di Ritsos, ma nella messa in scena di Alessandro Machìa, l’acqua diventa la reale protagonista della tragedia. La regia pone il tavolo di lavoro a centro scena, lasciando lateralmente Agamennone fiaccato nello spirito sia dal combattimento che dalla freddezza della consorte: così la regina solitamente antagonista prende il sopravvento a discapito del re, il cui nome trionfa sul manifesto (un «quasi equivoco» riuscito perfettamente anche a Shakespeare con il Macbeth). Ma, la vera sorpresa scenica è che Clitennestra attira su di sé la concentrazione degli spettatori non pronunciando mai una sola parola, anzi, riuscendo ad esprimere l’intera gamma dei suoi stati d’animo attraverso una precisa gestualità danzante, manipolando l’acqua per farla rimbalzare sul tavolo delle sue fatture, e la goccia emette un suono, e i bicchieri cantano roteando il dito sul bordo, e il liquido assume prima fascino e poi ostilità. Clitennestra, grazie a questo magico incantesimo mima luci e ombre dell’acquario del suo mutismo e al contempo grida l’odio verso lo sposo con la violenza di un bicchiere rovesciato.
Lei è giovane e bella, con l’amante (Egisto, che mai appare) pronto a prendere il posto del re. Lui è vecchio, adagiato ormai nella stanchezza che è diventata il suo spazio, il suo linguaggio. «A che servono le parole», si chiede nel delirio dell’accidia. Vuole solo farsi un bagno caldo e niente altro. Dopo dieci anni di battaglia comprende che il suo corpo ha perso l’abitudine di possedere la sua donna. Sta per invitarla a giacere con lei, ma subito desiste, perché per lui «contano i fatti e non le parole». Eppure continua a parlare, nascondendosi dietro le parole, senza che nessun fatto prenda consistenza dai suoi racconti. È evidente: dopo la guerra cruenta non ha più fatti da consumare. O forse il suo destino si consuma in quel momento sotto i suoi occhi annegando in un bicchier d’acqua. Vien da pensare che nell’Agamennone di Ritsos riecheggino in lontananza le parole premonitrici di Cassandra, che avvertì il re della sventura che l’avrebbe colto al rientro in casa. Così, mentre Clitennestra trasforma l’acqua in sangue come fosse un ultimo sortilegio, Agamennone s’avvia, con la dignità di chi è conscio della fine, verso la morte.
La regia di Alessandro Machìa ha creato qualcosa di molto interessante, che va oltre la novità del testo; è entrato a fondo nella psicologia e nella sensibilità femminile capace di eliminare dentro di sé ogni traccia d’amore verso l’uomo che per dieci anni l’ha abbandonata, mostrandole nient’altro che il suo oblio. E si vendica con l’elemento più vitale e cristallino che esiste: l’acqua che rinfresca e disseta, ma, appunto, scava anche la roccia.
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Agamennone, di Ghiannis Ritsos, con Andrea Tidona. Regia di Alessandro Machìa
Foto: Andrea Tidona (© Manuela Giusto)