PIRANDELLO IN SICILIA CON I SEI PERSONAGGI
Ogni domenica mattina Luigi Pirandello aveva l’abitudine di «dare udienza» ai personaggi delle sue novelle. Cinque ore: dalle otto all’una. Quasi sempre gli sembrava di stare in cattiva compagnia, ma, per dovere di autore, sopportava. In occasione dell’ottantesimo compleanno di Giovanni Verga, dovendo assentarsi da Roma per raggiungere la Sicilia, lasciò loro un biglietto: «le udienze sono sospese». Prese il treno, e durante il viaggio si accorse di essere anche lì in pessima compagnia di sei personaggi che, incuranti dell’avviso, lo stavano seguendo: erano tutti nello stesso scompartimento, di fronte a lui, ciascuno nel suo atteggiamento ostinato, proprio come s’erano già presentati nel suo studio romano qualche tempo prima.
Siamo nel 1920. Già da qualche anno Pirandello ha cominciato a trascrivere molte delle sue novelle in commedie per il teatro. Il teatro lo affascina sempre di più. Quel gioco tra realtà e finzione lo cattura e lo perseguita. Nei suoi ragionamenti quella stranezza del teatro prende forma, si umanizza fino a diventare l’essenza dell’indole della gente, che con le sue verità «che cangiano dall’oggi al domani» resta sempre in bilico tra ciò che è falso e ciò che è vero.
Aveva già scritto qualche paginetta su personaggi che aspettavano di veder raccontato il loro dramma, ma stavolta la caparbietà di quei sei era diventata una vera ossessione: soprattutto per quella ragazza scompigliata, capace di far scoppiare una risata tanto invadente quanto fastidiosa. Eppure, nonostante l’insistenza, quei sei non riuscivano a trovare una collocazione drammaturgica.
Secondo l’intuizione di Roberto Andò – sceneggiatore con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso della straordinaria metamorfosi cinematografica (una stranezza anche questa!) del più importante autore di teatro del nostro Novecento – è stato quel viaggio in Sicilia a far nascere in Pirandello l’idea di scrivere il primo dramma non rappresentato. Una follia per l’epoca, che poi si rivelò la punta di diamante del genio di Girgenti.
La folgorazione arriva per un caso fortuito. Quando Pirandello raggiunge la casa natia è appena morta la vecchia balia; della sepoltura si occupano due becchini con la passione del teatro. Prima ne scaturisce una serie di equivoci abbastanza comici e poi una più ossequiosa deferenza. Pirandello, sempre ossessionato da quei sei, cerca uno svago trovandolo nelle divertenti prove pomeridiane della scalcagnata truppa di guitti. Lì, in un piccolo teatrino di paese, nascosto in un palco, mentre si recita, si scherza e si litiga, mentre qualcuno appronta una scena e altri ripassano le battute per una seduta spiritica, ecco che quei sei personaggi cominciano a trovare un più preciso spazio nella fantasia dell’autore.
Quindi, durante la prima rappresentazione amatoriale, ammirando la passione di quella gente, pubblico compreso, tutti intenti a gridare le loro ragioni tra la realtà di quel che accade nei camerini e in platea, e la finzione della recita che viene interrotta dal caos, Pirandello comprende finalmente che il dramma dei suoi personaggi non potrà mai essere rappresentato, perché proprio l’eccessiva animosità spinge costoro a raccontare ciascuno la propria realtà, rendendoli poco idonei all’ordine della finzione teatrale. Ed ecco che per rappresentare quel dramma c’è bisogno di attori educati alla scena che sappiano fingere la verità. Sembrerebbe un paradosso che i personaggi non sappiano stare in palcoscenico, eppure la realtà dei personaggi crea troppa confusione in teatro; così come la realtà della gente crea troppa confusione nella vita.
Un’autentica stranezza!
Foto: Tony Servillo è Luigi Pirandello (© ???)