11 novembre 2022

«Diario licenzioso di una cameriera», di Mario Moretti


Roma, Teatro Sophia
11 novembre 2022

AMMICCAMENTI IN GUÊPIÈRE

Quando cominciai a far teatro – sul serio – gli attori avevano a disposizione trenta o quaranta giorni di prove per assimilare bene lo spettacolo che s’apprestavano a rappresentare. Eppure i capocomici pretendevano da loro che, al primo giorno di prove, la memoria fosse già ben avviata: significa che, quando la compagnia si riuniva attorno a un tavolo per la prima lettura del regista, che tutti chiamavano maestro, i commedianti sapevano, anche se non perfettamente, già ripetere a mente le battute del copione corrispondenti al proprio ruolo. Durante il lungo periodo di prove, infatti, si dovevano memorizzare le intonazioni, rispettare i movimenti impartiti dal regista, trovare la gestualità del personaggio, modificare le intenzioni per accordarsi tutti come in un’orchestra, seguendo quei tagli e quelle piccole correzioni al testo che completavano la regia; e soprattutto assorbire tutto questo affinché parole, toni, movimenti e gesti acquisissero la leggerezza della quotidianità, la naturalezza dell’indipendenza, ossia quella capacità di far apparire ogni cosa indipendente l’una dall’altra, anche se in pratica – e lo sa bene chi fa teatro – si tratta dell’esatto contrario. Ma il teatro è finzione, e la prima finzione di un attore è quella di nascondere al pubblico la propria tecnica, è quella di camuffare al meglio i propri difetti; è quella di far apparire semplice ogni difficoltà affrontata in prova. Ecco perché occorre arrivare preparati, con la parte imparata a memoria, al primo giorno di prove.

Questa, che prima era un’abitudine, oltre che un’educazione, oggi è diventata un’assoluta necessità, perché dai 30/40 giorni di prove si è presa la pessima china di dedicare alla costruzione di una regia non più di dieci giorni (quando si è fortunati!). Con la parte imparata a memoria, i dieci giorni saranno tutti concentrati sui movimenti, sull’intensità delle luci, sull’equilibrio della fonica e l’interprete potrà sfruttare quel tempo per assimilare tutte le indicazioni del regista e consumarle nello spazio scenico, affinché tutto sembri naturale. Chi è a digiuno di palcoscenico difficilmente potrà comprendere – per esempio – le vere ragioni del vizio di colui o colei che nel toccare con la mano un mobile, o nello sfiorare una parete, porta istintivamente lo sguardo sulla mano e spia con la coda dell’occhio il gesto: accade perché non ha alcuna padronanza dello spazio scenico, non conosce le distanze, cioè, non ha il controllo dell’ambiente in cui si trova. Una pecca che deriva dal non aver acquisito la sensibilità dei centimetri da sfruttare, perché giustamente nel breve tempo in cui avrebbe dovuto badare alla gestualità, era ancora troppo concentrato sulle parole da dire.

In palcoscenico, di fronte al pubblico, le parole del testo non si devono cercare con la mente, ma devono venir fuori con naturalezza dalla bocca dell’interprete. Allo stesso modo, i movimenti non possono essere pensati prima che siano eseguiti perché il pensiero ruba il tempo all’effetto: che sia vocale o manuale.

Diario licenzioso di una cameriera risente di tutte queste pecche che soltanto un più lungo rodaggio avrebbe potuto eliminare, ma siccome i giorni delle recite, purtroppo, sono ancor meno di quelli dedicati alle prove, non si può dire se Giovanna Lombardi e il tecnico alla consolle siano stati bravi o meno. Il tecnico probabilmente (avendo un compito semplificato) con qualche prova in più avrebbe certamente recuperato quella fiducia e quella sensibilità che gli avrebbero permesso di manovrare illuminazione e fonica con maggior dolcezza negli interventi, ma l’attrice anche con un mese di prove non avrebbe certo migliorato la sua dizione e la sua impreparazione scenica, il suo balbettio gestuale. È parso di vedere un saggio recitativo di una scolaretta che gioca a ricoprire un ruolo più audace del suo portamento. Non bastano ammiccamenti a profusione per rendere credibile una cameriera in guêpière; non è sufficiente sbattere le ciglia e sorridere per raccontare lo scandalo altrui. Questi sono atteggiamenti che si possono sfruttare in una reale camera da letto di fronte a chi mostra di apprezzare certe provocazioni licenziose, ma il palcoscenico è altra cosa. Il palcoscenico è una scatola nuda, più nuda di qualunque nudità, che va rivestita dall’interno, e se all’interno non ci si mettono addobbi interessanti la severa nudità della scatola respinge qualunque tentativo oltraggioso.

Il testo di Mario Moretti, ricavato dal romanzo di Mirbeau, è un’accusa all’intera classe sociale dei nuovi borghesi (coloro che si sono arricchiti dopo la rivoluzione industriale: siamo nel 1900) le cui depravazioni puzzano «più del fetore dei poveri». È Celestine che raduna le prove per gettare, a ragione, fango sulla loro reputazione, ma pur preferendo l’invito del giardiniere Josef, le sue condizioni non miglioreranno mai. Tuttavia, resta un dubbio sul motivo per il quale il diario, secondo Moretti, sia diventato «licenzioso». Se già Mirbeau, nel 1900, non l’ha giudicato «privo di freni e di ritegni morali» perché, dopo oltre un secolo, noi, ci dovremmo oggi scandalizzare?

La regia di Gianni De Feo è fin troppo minuziosa e la scelta delle musiche d’antan resta il suo punto di forza, la sua cifra stilistica, ma è parso un impegno, il suo, caduto nel vuoto per mancanza di un’adeguata professionalità da parte di chi confonde il palcoscenico con il salotto di casa. (fn)
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Diario licenzioso di una cameriera, di Mario Moretti (liberamente tratto dal romanzo «Journal d’une femme de chambre» di Octave Mirbeau). Adattamento e regia di Gianni De Feo; con Giovanna Lombardi

Nella foto: Giovanna Lombardi © Manuela Giusto

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