EVASO DALLA CRUDELE INCIVILTÀ DELLE ISTITUZIONI
Io sono un evaso è il titolo con il quale la pellicola fu distribuita in Italia nel 1934, ed è la traduzione letterale della prima parte dell’originale: I am a fugitive from a chain gang, film imperdibile. Giustamente la casa di distribuzione nostrana ha preferito omettere il seguito per semplificare lo strillo di richiamo di un titolo e perché da noi la «gang della catena» non esisteva e soltanto in pochi all’epoca potevano immaginare cosa significasse fuggire dalla chain gang. Con questa espressione gergale si usava indicare quel gruppo di carcerati, i quali erano uniti tra loro da una grossa catena che scorreva in un anello di ferro che ciascun prigioniero aveva attaccato ai tredici anelli fissati alle cavigliere. Così erano condannati ai lavori forzati i galeotti negli Stati Uniti d’America ad inizio secolo: costantemente legati a gruppi formati da circa venti persone, anche di notte per dormire, di mattina per mangiare, per salire poi sui camion e raggiungere le cave di pietra. Soltanto lì venivano «liberati» e controllati a vista da guardie dal grilletto facile, e comunque mantenevano sempre le caviglie ancorate fra loro, condizione che li costringeva a camminare a piccoli passi. Nel 1932, quando il film uscì negli Usa, erano già molti gli stati che avevano abolito questo tipo di detenzione, ma ancora al sud le carceri praticavano simile sconcertante metodo punitivo.
Il soggetto è di Robert Burns. Chi, meglio di lui, avrebbe potuto raccontare una storia vissuta in prima persona! Burns fu condannato a scontare la pena di dieci anni in un carcere della Georgia imprigionato alla chain gang per aver rubato 5 dollari per comprarsi da mangiare. Quando la pellicola arrivò nelle sale, Burns era ancora ricercato e le massime autorità della Georgia respinsero la distribuzione del film, tentando di aprire una controversia legale contro la Warner Bros, sentendosi, chissà perché, chiamate in causa: ma l’azione legale non ebbe seguito perché i nomi citati dalla sceneggiatura non sono attinenti ad alcuna realtà locale né a personaggi esistiti. E nemmeno si capisce dove sia la prigione nella quale è stato rinchiuso James Allen, protagonista della traumatica vicenda. È il caso di dire: excusatio non petita, accusatio manifesta.
In verità è difficile stabilire finanche l’anno preciso in cui lo sfortunato prigioniero, interpretato magnificamente da Paul Muni (già visto in «Scarface»), fu arrestato. Probabilmente la storia comincia nel 1927, con i primi sintomi del disagio economico e le difficoltà di lavoro nelle fabbriche industriali: l’America ancora non è piombata nella Grande depressione, ma la canzone Black and blue che si sente suonare, dopo la prima fuga del protagonista, è proprio del 1929. Certamente però il crollo finanziario dell’intera nazione condizionò le riprese, e non soltanto per le esigue spese sostenute per la realizzazione, ma addirittura per la scelta del regista. Pare infatti che il primo ad essere interpellato fu Roy Del Ruth, il quale rifiutò l’impresa per aver giudicato il soggetto «senza alcun sollievo per il pubblico», già avvilito dalla sconfortante situazione economica in cui versava il Paese nel ’32.
Mervyn LeRoy, invece, accettò l’impresa, e, tra le sue mani, quello stesso soggetto già ripudiato è diventato un’icona del cinema di denuncia. Un’accusa violentissima, non solo rivolta al deplorevole e brutale sistema carcerario allora adottato, ma soprattutto un’invettiva fatta contro il governo centrale, completamente assente quando s’è trattato di difendere i diritti dei cittadini. Un film «tosto» che condensa la stessa amarezza del neorealismo del primo Rossellini, ma anche la spregiudicatezza delle denunce fatte, in epoca più recente, da Franco Rosi.
James Allen, un giovane rientrato da poco in patria con la medaglia d’onore per i meriti acquisiti nell’esercito, cerca di cominciare bene la propria vita, dopo l’esperienza bellica, per rendersi libero e indipendente: diritti che lui ha e che vorrebbe osservare civilmente. Da nord a sud, da est a ovest, non riesce a trovare un lavoro duraturo; così, senza soldi e affamato, quando un compagno gli offre la possibilità di mangiare un hamburger gratis, si ritrova coinvolto, suo malgrado, in una rapina per la quale viene condannato a dieci anni ai lavori forzati. Lui che era stufo di obbedire agli ordini militari, è ora costretto a sottostare alle più crudeli angherie e mortificazioni. Riuscito a fuggire, in breve tempo riesce a riequilibrare la vita e, sotto falso nome, a recuperare un minimo di serenità: trova un lavoro che gli regala grande soddisfazione morale ed economica; riacquista finalmente credibilità, ma una donna, venuta a conoscenza della sua vera identità, comincia a ricattarlo in cambio di matrimonio e denari. La convivenza dura poco, e la denuncia arriva ugualmente. Il fantasma di James Allen torna a mordergli la coscienza proprio quando il suo nuovo nome era diventato per lui il simbolo del riscatto di uomo integrato socialmente, e per gli altri quello di un individuo apprezzato per i suoi valori onesti e generosi, e per le sue capacità professionali. Tutta Chicago gli è riconoscente per le sue attività. Anche le autorità cittadine gli conferiscono onori. Eppure gli agenti fanno irruzione nel suo ufficio con un mandato di cattura.
Sgomento che si evince dalle domande che il protagonista pone davanti alla stampa che accorre alla notizia del suo arresto. Perché un cittadino che ha fatto del bene deve andare in prigione? Perché anche chi si è distinto nelle opere pubbliche deve essere sottoposto alle peggiori torture medievali? Questa sarebbe la nostra civiltà? Dove sono i diritti umani? Dov’è la costituzione?
Foto: Paul Muni (in primo piano)