Pino Micol e Milena Vukotic |
LA VERITÀ OSSERVATA DAL CANNOCCHIALE DI FILENO
All’aprirsi della tela, una registrazione sonora introduce il pubblico nella «stanza della tortura», quella dove Luigi Pirandello, ogni domenica mattina, per cinque ore, dava udienza ai personaggi delle sue future novelle. È la voce di Geppy Gleijeses (qui in veste di regista) che legge alcuni passi della Tragedia di un personaggio, novella tra le più conosciute dello scrittore siciliano, la stessa che annuncia la nascita dei Sei personaggi. La breve introduzione serve a rinfrescare la memoria del pubblico sulla filosofia del lontano di cui un certo dottor Fileno (uno dei tanti personaggi che approfittano della sopportazione di Pirandello per perorare la sua causa ed essere quindi rappresentato e reso immortale grazie alle capacità dello scrittore) si dice esserne l’autore. La filosofia del lontano non è altro che l’astuzia di riuscire a spiare la vita attraverso il foro di un cannocchiale rivoltato: ossia dalla parte della lente più grande, in modo che tutto il visibile appaia lontanissimo, cioè distante nel tempo, che sia esso passato o futuro. Un escamotage, pirandelliano, per non vivere il presente nel momento stesso in cui consiste, ma un trucco per poterne osservare meglio o le cause o gli effetti.
Da questa concezione temporale della filosofia del Fileno, Gleijeses, modificando la messa a fuoco sui personaggi del Così è (se vi pare), presentato al teatro Quirino fino a domenica 23, ne ha sviluppato l’idea per una visione fisica. Infatti, chiunque guardi una persona attraverso l’occhio del cannocchiale potrà vederlo o vicino e di enormi dimensioni, oppure lontano e ridotto a essere minuscolo. E se fossero le nostre attitudini a renderci grandi o piccoli agli occhi degli altri?
È ovvio che la curiosità degli inquisitori di casa Agazzi sia stata giudicata come crudele e morbosa meschinità, tanto che l’occhio del cannocchiale del regista (grazie ad un gioco tecnologico ideato da Michelangelo Bastiani), ha voluto punirli mostrandoli, tutti insieme nelle misure inversamente proporzionate al grado delle vessazioni che hanno inferto alle loro due vittime. Borghesucci piccoli piccoli, gli inquisitori, alti appena sessanta centimetri che parlano in ribalta con voci e con pigli più grandi delle loro stesse possibilità: cosicché la malignità del meschino trionfi insieme all’inutile cattiveria di conoscere la verità (o quel che sembra).
Da questo intrigante gioco punitivo, però, a rigor di logica, sarebbe dovuto restar fuori Laudisi che sempre, in tutti e tre gli atti, ha sostenuto la voce della verità dell’una (Signora Frola) e dell’altro (Signor Ponza), senza mai schierarsi da una parte o dall’altra. Invece è stato ridotto anche lui nelle sue proporzioni! Inoltre, si è avuta la conferma che gli effetti tecnologici facciano sempre gran fatica a sposarsi con la coralità teatrale di un testo che, per venir fuori, ha bisogno necessariamente dei rapporti tra i personaggi che sono «esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni», almeno in palcoscenico. E benissimo ha fatto Gleijeses a non eccedere nel tentativo di sbalordire il pubblico con la dimostrazione di una teoria filosofia che, oltre ai personaggi della commedia, avrebbe «ridotto» anche la comprensione del pubblico, soprattutto in alcuni passaggi: quando Laudisi invita il signor e la signora Sirelli a raggiungerlo per toccarlo, mentre in realtà ognuno resta incollato al suo posto.
L’ingresso della signora Frola innesca la diatriba e tornano le grandezze naturali: i rapporti tra i personaggi si accendono di intensità, rischiarando la godibilità del linguaggio di Pirandello; così la vicenda procede scorrevole. Milena Vukotic veste i panni di una protagonista assai dimessa, stanca, indebolita dal dolore, capace però di portare immediatamente la credibilità dalla sua parte, ma per pietà sentimentale non per ragionevole senso logico, che anzi si perde dietro questo paravento che sa di favola più che di realtà. Dall’altra parte, l’alibi che sostiene il signor Ponza è costantemente permeato dalle tipiche goffaggini provinciali, atteggiamenti del paesano che arriva in città e non sa bene come comportarsi. Gianluca Ferrato assume nella postura, direbbe Cesare Lombroso, quelle caratteristiche insite a coloro che nascondono patologie nocive. E se non ci fossero le affermazioni della suocera a sbandierarne le doti irreprensibili, si finirebbe presto per sospettare tutti soltanto di lui.
Pino Micol, già punito ingiustamente all’inizio, malgrado la sua rinomata innocenza, ha modo di riscattarsi costruendo un Laudisi inedito, forse meno caustico ma certamente più bonario: di bianco vestito, proprio come la sua parola candida che mai s’è sporcata nelle pozze delle meschinità degli altri, usa con abilità i toni ironici che più facilmente illuminano l’umorismo dell’autore.
Nel complesso, mentre i protagonisti riescono a ritagliarsi uno spazio scenico dove poter meglio giocare i loro ruoli e godere di sprazzi d’indipendenza, il coro degli inquisitori resta quasi sempre unito e assiepato intorno ai sospetti che essi stessi creano, senza mai distrarsi tra gli specchi della scena (di Roberto Crea), oppure si posizionano spesso in fila indiana, formando così una lunga coda di infiniti pettegolezzi che proseguono anche in quinta.
Foto: (© Tommaso Le Pera)