«UN RAGAZZO TANTO DOTATO DOVREBBE TENERSI SEMPRE IN ESERCIZIO»
Arriva in carrozza con un cappello sormontato da un cespuglio di piume, sotto il quale sfoggia uno sguardo fiero da diva ammaliatrice; anche il parasole chic sembra essere proporzionato alle sue forme. Fasciata in un vestito di velo contornato di raso nero che esalta le curve dei fianchi, con passo deciso, da altera generalessa, ma certamente un po’ sciantosa, le si legge negli occhi che avrebbe un gran desiderio di sfogare la sua esuberante femminilità con la classica «mossa» delle canzonettiste partenopee della sua epoca, ma si trattiene, Mae West: non scende a patti con le «cattive abitudini» portate dagli emigranti italiani che ai primi del Novecento partivano da Santa Lucia per sbarcare a Brooklyn; lei, nata in quel quartiere, resta americana dalla testa ai piedi, ricoperta di diamanti, biondissima, eppure forse da quelle influenze nostrane sembra aver assimilato la spudoratezza della battuta sagace. In She done him wrong (titolo che significa «Lei gli ha fatto del male», ma che in Italia è stato cambiato in «Lady Lou», dal nome del personaggio principale), pellicola del 1933, appena alla sua seconda apparizione cinematografica, sembra prendere di petto (ne ha la quantità e la qualità per poterlo fare con nonchalance!) le regole dettate da Will H. Hays per beffarsi delle imminenti rigidità moralistiche sin dalla prima frase.
È risaputo che in quasi tutti i film che l’hanno vista protagonista, le battute dei suoi personaggi erano suggerite dal suo stesso estro, ma questo lungometraggio (di appena 66 minuti) fu scritto da una sua commedia che l’attrice interpretava a Broadway qualche anno prima e la verve è audacissima. Ripresa da Harvey F. Thew e John Bright che l’hanno adattata per il cinema, risente di una regia (Lowell Sherman) poco brillante, meno raffinata rispetto alle pellicole della stessa epoca, tutta concentrata sul personaggio di Lady Lou, diva esageratamente vistosa tanto da far scomparire tutti gli altri bravi caratteristi del cast.
In una New York del 1908 circa (dove si sta completando il Queensboro bridge, il ponte che collega Long Island,) Gus Jordan gestisce un music hall che usa sia per far esibire la sua amante Lou, favorita del pubblico, ma soprattutto per svolgere illecite attività: dal traffico di diamanti allo spaccio di banconote false, oltre che assoldare ragazze da istruire all’arte del furto, insomma un luogo che il solerte Hays ne avrebbe fatto terra bruciata! Per Lou, Gus rappresenta il protettore, che tradotto in sincerità vuol dire aver la certezza di poter indossare ogni settimana un gioiello diverso, così da accumulare un patrimonio in diamanti che «rappresentano la mia carriera», dice sferzante. Si capisce sin da subito che avrebbe una lista di uomini molto lunga da esibire alla buoncostume, ma quando va a trovare un suo spasimante in carcere, vestita come mai nessuno varcherebbe il cancello di una prigione, ingioiellata fino a non potersi muovere, con sette anelli alle dita, tutti la riconoscono e ogni galeotto le riserva un benvenuto assai ardito che lei comunque raccoglie con un sorriso con cui auspica sempre buone speranze.
Quando bussa alla sua porta un giovane missionario dall’espressione ingenua (un ventunenne Cary Grant) che chiede di una ragazza dispersa, Lou lo apostrofa offesa: «Vieni da me per cercare un’altra donna?». Il poverino finge imbarazzo, ma in realtà è un poliziotto in borghese che tiene sotto controllo le attività di Gus. Lou lo corteggia, ma lui le sfugge, anzi ha l’ardire di disprezzare i suoi diamanti che «sono senz’anima». «Vorresti dire che io non ho un’anima?», subito risentita. E lui con una smorfia dà a intendere che le sue doti sono molto meno eteree di un’anima!
Foto: Cary Grant e Mae West