LE MAGIE DI BERKELEY INCANTANO IL MONDO
Mervyn LeRoy firma la terza pellicola della serie dedicata alle gold diggers. Anticamente tale espressione inglese fu coniata per indicare i cercatori d’oro, ma verso la fine del XIX secolo fu presa in prestito ai giacimenti dell’ovest per essere adottata alle ragazze che sposando un uomo ricco trovavano la loro personale miniera d’oro. Per traslazione (e nemmeno troppa) il vocabolo fu comunemente associato alle ballerine degli spettacoli di rivista, delle commedie musicali, di quel genere teatrale leggero e godereccio frequentato da ricchi signori attempati in cerca di facili avventure. Questo è quel che si diceva un tempo, quando obbiettivamente molte fanciulle, dopo un’infanzia disagiata e faticosa, raggiungevano la città e attraverso il palcoscenico riuscivano a ribaltare (non per questo, però, il proscenio si chiama anche ribalta!) la malasorte in fortuna.
Nel 1919, proprio a Broadway, una commedia di Avery Hopwood, prese di mira quei signorotti che dalla platea si avvicinavano alla ribalta per attirare, strizzando l’occhio, una preda succulenta pronta a sua volta a depredare. Da questa commedia molti film ne trassero ispirazione: nel ’23 The gold diggers di Harry Beaumont, nel ’29 The gold diggers in Broadway di Roy Del Ruth, e poi The gold diggers of 1933 di LeRoy, che non chiuse la fortunata serie proseguita con altre pellicole fino al 1938.
Le ragazze del mondo dello spettacolo, coloro che solitamente sono chiamate soubrette, qui, vengono definite dai personaggi dell’alta società, quelli con il portafogli gonfio, «truffatrici, parassiti, arriviste», ma poi, naturalmente, chi disdegna compra. E i ricchi comprano fino a sposarle, affinché l’happy end possa risarcire il maltrattamento che hanno loro appena riservato.
All’apparenza, quindi, la sceneggiatura non riserva gravi spunti che avrebbero dato adito alla censura di dover intervenire, anche perché i censori erano baciati da un imperturbabile maschilismo e non badavano troppo agli insulti rivolti alle soubrette. Ci sono, è vero, riferimenti imprudenti al comportamento spietato delle autorità che irrompono in un teatro e bloccano le prove di un musical, lasciando senza lavoro un centinaio di artisti, solo perché il produttore non è riuscito a pagare le ultime bollette della luce. Ci sono allusioni ironiche alla Grande depressione e al desiderio di voler spendere milioni di dollari in futili divertimenti: «Siamo ricchi sfondati», recitano i versi sarcastici di una canzone. Insomma, non ci sono grosse offese; tanto che sembrerebbe addirittura strano che un lungometraggio, la cui trama ruoti intorno a sentimentali vicende da palcoscenico, e ben mascherato dalla spensieratezza delle musiche di Harry Warren e dalla leggiadria delle splendide coreografie di Berkeley, sia presentato in una rassegna dedicata al cinema Pre-Code.
Eppure LeRoy ha osato un’audacia, forse addirittura trasgressiva, nelle inquadrature di quelle parti femminili che all’epoca erano considerate «proibite»: uno spogliarello totale dell’intero corpo di ballo, visto in silhouette attraverso un velo bianco; accavallamenti di gambe ripresi da tutte le posizioni; ragazze in déshabillé che girano per casa con vestaglie sensuali e camicie da notte estremamente osé, sognando gli abiti di Elsa Schiaparelli. Certamente sono immagini che oggi non destano più alcun interesse tanto sono diffuse (anche se i più ignorano chi sia la Schiaparelli), ma nel 1933, quando un semplice bacio in pubblico poteva essere il pretesto per uno scandalo, il senso morale dei «cittadini perbene» era talmente suscettibile a queste provocazioni da sentirsi tassativamente offeso, anche se l’occhio gradiva. Motivo per cui alcune scene, come quella che mostra le coppie al parco in atteggiamenti «inibitori», dove un finto neonato teppistello colpisce una guardia sparando con la cerbottana per richiamare la sua attenzione, furono girate con alcune varianti più o meno audaci, per secondare il grado di severità della censura nei vari stati.
Ma lasciamo stare i moralismi per dedicarci al vero realizzatore della fortuna del film: Busby Berkeley. Solo grazie alle sue innovazioni coreutiche, il film ebbe un successo di pubblico quasi da record, tanto che due anni dopo il sequel fu affidato direttamente a lui che girò Donne di lusso (il titolo italiano dell’opera più conosciuta). Berkeley, lavorando in teatro, osservò che una coreografia che coinvolgeva tanti ballerini, vista dall’alto dei ballatoi laterali o dalla graticcia che sovrasta il palcoscenico cambiava completamente prospettiva; e se, per esempio, tutti avessero aperto contemporaneamente un ombrellino, dall’alto si sarebbero visti ombrelli che danzavano da soli. Lo stesso effetto si sarebbe ripetuto con gli abiti a spirale delle ragazze che girando vorticosamente annullavano il loro corpo mostrando una corolla attorno a uno stelo. Pertanto, posizionando la telecamera laddove l'occhio degli spettatori non poteva arrivare, il risultato sarebbe stato strabiliante e assolutamente nuovo.
Foto: Un'immagine delle innovative coreografie di Busby Berkeley