L’ELEGANZA DI ADRIAN NELLA FORESTA TROPICALE ESALTA LA MAGIA DEL CINEMA
Un signore amico, scomparso ormai da tempo, tra i suoi ricordi più assidui, amava associare i momenti di maggior spensieratezza adolescenziale, a quando sua madre, poco prima della mezzanotte, lo sollecitava ad uscire per andare a vedere l’ultimo spettacolo alla Sala Aurora, un cinema di Napoli, a Chiaia. Era il periodo immediatamente precedente alle tensioni politiche che poco dopo avrebbero portato l’Italia alla Seconda guerra mondiale. Andare a cinema – diceva – significava sognare, significava scoprire quel mondo di cui tanto si parlava ma che soltanto pochissimi avevano visto realmente. E ad ogni proiezione, quel brillante cosmo in bianco e nero si apriva su uno scenario diverso, ma i sogni si ripetevano pressoché identici. Attraverso quei film, uomini e donne conoscevano la nuova eleganza del saper vestire: gli uni anche come tagliarsi i capelli; le altre, le acconciature stravaganti, i cappellini frivoli. I ragazzi più grandi rubavano agli attori di Hollywood degli anni Trenta le movenze e gli atteggiamenti che avrebbero arricchito il loro bagaglio da dongiovanni. Dallo schermo qualcuno più sfacciato apprendeva la posizione più «appassionata» per abbracciare e baciare una ragazza. E le giovani fanciulle sostituivano le smorfie nostrane con quelle delle dive. Insomma, a quell’epoca, un film rappresentava molto di più del semplice svago proposto con la domanda: «Andiamo al cinema?».
Osservando Red dust di Victor Fleming, pellicola del 1932, si comprende bene questo involontario trasferimento di usi e costumi che Hollywood esportava nel mondo attraverso la celluloide. Probabilmente perché il contesto in cui è ambientata la vicenda contrasta fortemente con gli atteggiamenti degli interpreti, il loro modo di vestire e quello di esprimersi. Insomma, tutto quel che riguarda gli attori, avendo poco o niente a che fare con l’ambientazione, risalta in ogni elemento in maniera evidente e colpisce maggiormente lo spettatore.
La storia, tratta dall’omonima commedia di Wilson Collins, si apre, infatti, non in una hall di un lussuoso albergo o nelle sale di una prestigiosa dimora, ma nella giungla tropicale, dove si dorme in capanne di legno e ci si lava con l’acqua del fiume, dove i monsoni portano improvvisi e violenti scrosci che si alternano al caldo umido e soffocante, e dove di notte si convive con il ruggito delle tigri. In questa cornice primitiva si aggirano Clarke Gable e Gene Raymond in abiti, sì tipici da esploratori delle foreste, ma sempre impeccabilmente pronti per essere esibiti in passerella, compresi gli accessori più superflui, come due racchette da tennis, per esempio. Per non parlare di Jean Harlow e Mary Astor che sfoderano tolette invidiabili di seta e di crinolina, e non manca il rossetto che anzi diventa protagonista di una gustosissima sequenza. L’eleganza di Adrian sbaraglia regalando alle immagini un taglio quasi surreale, grazie al quale si sente e quasi si tocca l’effervescenza della favola, che è la magia del cinema, che – sosteneva il signore amico – non deve seguire le angosce della nostra quotidianità: anzi, ci deve abituare al godimento di una realtà che probabilmente non esiste, ma che è indispensabile mostrare per curare gli eccessi d’infelicità.
Aveva ragione. Soltanto attraverso una visione favolistica potrebbe apparire verosimile che da un battello a vapore scenda nel mezzo della selva una incantevole bionda platinata che si presenta dicendo: «Sono una donnina allegra stufa dalle fatiche di Saigon», per poi mettersi a discutere poco dopo sulle differenze tra il Gorgonzola e il Roquefort. Questa stessa scena in un ciak di oggi non reggerebbe neanche un attimo. Invece nel gioco della finzione creato da Fleming, e dal suo mondo cinematografico, anche gli opposti si sposano perfettamente.
Dopo la concione casearia sembrerebbe che la coppia Gable-Harlow stesse per cominciare un idillio, ma dallo stesso battello spunta un’altra coppia, Raymond-Astor, e la storia si arricchisce di colpi di scena e di capovolgimenti di situazioni. Una classica commedia divertente e leggera, nella quale la dovizia di scrittura mette in primo piano la bravura degli attori.
Tuttavia il titolo, ai più, resta un mistero. «Red dust», cioè polvere rossa, trova qualche riferimento orientale soltanto nella sabbia del deserto cinese, ma qui siamo molto più a sud, in piena giungla e obbiettivamente questa polvere rossa non si vede e non si sente, a meno che non ci sia un ammiccamento al rossetto (ma è proprio polvere?) o al chinino che cura la malaria (anche se la qualità rossa dell’antipiretico non è originaria di quelle zone); e comunque, sia il rossetto che il chinino sono due elementi marginali allo sviluppo dell’intrigo. È certamente più giusto il secondo titolo italiano: Lo schiaffo, che sottolinea il momento cruciale in cui scocca la scintilla tra lui e lei. Inizialmente la pellicola, quando fu distribuita nel nostro paese, fu battezzata con «La giungla in rivolta», ma le venne cambiato presto il nome perché evidentemente avrebbe richiamato l’attenzione su un altro lungometraggio, di grande successo al botteghino, con John Weissmuller («Tarzan, l’uomo scimmia» è dello stesso anno).
Foto: Jean Harlow