UN SOFISTICATO PARADISO DISEGNATO DA LUBITSCH E BANTON
Un raffinato intrigo di abilissimi ladri, in una cornice molto ricca ed elegantissima nella quale «quelli dell’alta società non vanno mai in galera». È la frase incriminata: quella su cui poi, nel 1934, s’è abbattuta la mannaia della censura firmata Hays. Se da noi in ogni tribunale è evidenziato il motto «la legge è uguale per tutti», a Washington, sul palazzo della Corte suprema degli Stati Uniti, è inciso «Equal justice under law» che esprime, grosso modo, lo stesso concetto. Ma – guarda caso – questa scritta fu aggiunta nel 1932, lo stesso anno dell’uscita del film che Ernst Lubitsch girò appena comprese che il Codice Hays avrebbe coperto ancor di più le alleanze tra potere giudiziario e potere economico. Certamente non è stata un’opera cinematografica che ha convinto il presidente della Corte suprema Charles Evans Hughes e il giudice Willis Van Devanter ad approvare l’iscrizione, ma sia la pellicola che l’epigrafe sono il frutto di un radicale cambiamento del clima sociale; una neanche troppo soffusa ribellione popolare (ricordiamoci del crollo di Wall Street dell’ottobre 1929 e delle successive tensioni cittadine) che a Hollywood fu recepita come un’occasione da prendere al volo per sottolineare le ingiustizie commesse dalle autorità, mentre a Washington gli stessi trambusti venivano avvertiti come un pericolo a cui porre almeno un apparente rimedio.
Il film si apre su un’affascinante Venezia al chiaro di luna, dove un gondoliere canta da tenore con perfetta dizione partenopea, alla Caruso per intenderci, «’O sole mio sta ‘nfronte a tte». Evidentemente il famoso «tocco alla Lubitsch» stavolta ha ritoccato un antico cliché: storia di furfanti, storia napoletana! D’altronde anche in «Scarface», Hawks aveva preferito lo stesso gergo in casa del bandito. Così era l’Italia vista dalla prospettiva americana negli anni Venti e Trenta.
Quando arrivò da noi, la pellicola fu battezzata non con il semplice titolo tradotto («Un problema in paradiso»), piuttosto con uno strano enigma, «Mancia competente», comprensibile soltanto alla penultima scena, quando il protagonista sottrae, con il permesso della legittima proprietaria, un prezioso filo di perle come obolo per il suo operato di segretario.
Gaston Monescu e Lily Vautier (interpretati da Herbert Marshall e Miriam Hopkins), coppia di ladri sopraffini, capaci, per amarsi con più effervescenza, di rubarsi a vicenda qualunque accessorio personale, dal portafogli alla giarrettiera, si fanno assumere dalla ricchissima e giovane vedova M.me Colet (Kay Francis) per spogliarla dei gioielli e dei contanti. Ma un inatteso intervento di Cupido ci mette lo zampino e scompiglia i piani in paradiso (la lussuosa casa di Colet) facendo sorgere un problema: Trouble in paradise.
Tuttavia se il problema coinvolge i tre magnifici protagonisti, non scalfisce assolutamente la regia di Lubitsch che resta perfetta in ogni dettaglio: dai giochi di luci e silhouette riflesse, alle dissolvenze a fil di battuta che lasciano sospesa la curiosità dello spettatore; fino ai dialoghi serrati e sensuali in cui i due innamorati si parlano l’una sulle labbra dell’altro: è M.me Colet, una bella donna del ’30, che provoca e ammicca sfrontata per ottenere il bacio, e anche altro; esibizioni nascoste che soltanto le ombre avvinghiate in un abbraccio e proiettate, prima in uno specchio, poi sulla parete, ed infine sul letto immacolato, fanno immaginare che qualcosa succederà, o forse no.
Foto: Kay Francis, Herbert Marshall e Miriam Hopkins