05 giugno 2024

Ricordo di Valeria Moriconi

«NON SI PREOCCUPI PER ME, CARO, SONO UN’ATTRICE»

Il prossimo 15 giugno, Elena Bucci e Marina Occhionero saranno insignite del premio intitolato a Valeria Moriconi: la prima, per la sezione «Protagonista della scena»; la seconda, per la categoria «Futuro della scena». È la quinta volta che l’ambito riconoscimento, promosso dal Comune di Jesi, dalla Fondazione Pergolesi Spontini, dall'Amat, Ass. marchigiana attività teatrali e dal Centro studi Valeria Moriconi viene assegnato «per conservare – recita il comunicato – e continuare l’eredità artistica e culturale della grande attrice di Jesi, valorizzando il ruolo della donna sulla scena tra passato, presente e futuro».

La cerimonia di premiazione si terrà al teatro Pergolesi, poco distante dalla casa natia della Moriconi. «C’è scritto Abbruzzetti», disse gioiosa struccandosi in camerino, quando organizzò una cena per la compagnia, dopo lo spettacolo; «voi intanto andate, io vi raggiungo con gli altri». Ci diede le opportune indicazioni e ci avviammo lungo una strada stretta. Individuammo il portoncino senza difficoltà, sul lato sinistro. Bussammo. La porta ci fu aperta ed entrammo in una sala non troppo grande, arredata con un mobilio semplice, affatto sfarzoso. Era anche la casa dove Valeria il 15 giugno del 2005, diciannove anni fa, avrebbe chiuso gli occhi per sempre. La donna che all’epoca ci accolse era anziana e conosceva «la Valeria» da quand’era una «bela fiòla» e faceva girare la testa a tutti i maschi del paese.

Le signore Bucci e Occhionero, vincitrici del premio, mi perdoneranno se ho spostato l’attenzione sul passato, ma certi ricordi si riaffacciano prepotenti alla memoria leggendo anche soltanto una parola: fa parte delle logiche proustiane, rimembranze di gioventù, «cari moti del cor», come scriveva il poeta marchigiano. Era il 1992 e, per un caso del tutto fortuito, mi trovai a seguire la tournée di Trovarsi nelle vesti di direttore di scena. Non era questo il mio ruolo abituale, ma per un’improvvisa emergenza mi adattai subito al nuovo incarico. Accadde qualche tempo prima, durante le prove a Sulmona (regno di Pietro Mezzasoma, ultimo fedele impresario di Valeria), che una mattina, a soli due giorni dal debutto, l’amministratrice di compagnia mi informò telefonicamente che, per un’incomprensione con la produzione, eravamo rimasti senza direttore di scena. Io ero l’assistente del regista e toccava a me avvertire Giuseppe Patroni Griffi che la première, con ogni probabilità, sarebbe stata rinviata. Conoscevo troppo bene orari, abitudini e umori mattutini di Peppino, per cui non mi passò minimamente per la testa di svegliarlo, e con una simile notizia. Invece corsi in teatro e con i due macchinisti, Antonio Belardi e Angelo Pompei, straordinari compagni d’avventura, decidemmo che l’unico rimedio possibile era portare al regista e al produttore già la soluzione più veloce e sicura: la responsabilità in palcoscenico, durante lo spettacolo, l’avrei presa io. E fui scritturato per la tournée.

Fu così che conquistai la piena fiducia di Valeria. E lei fu la prima a incoraggiarmi: «Questo è lo spirito del teatro», esclamò appena seppe che lo spettacolo avrebbe debuttato il giorno stabilito. Subito dopo il debutto di Sulmona, scappammo giù in Puglia: Foggia, San Severo, Bari, Brindisi, Lecce, ce le facemmo tutte le piazze dell’Adriatico. Infatti, dopo Roma (al Quirino) tornammo sulla costa orientale, risalendo l’Abruzzo fino alle Marche, e poi nella sua Jesi. Questa, però, è la parte finale del racconto, perché le impressioni più inattese sulla sua professionalità genuina, che era il modo di essere di Valeria, le ho raccolte sin dai primi giorni di prove a tavolino, in via delle Convertite, quando cominciammo a leggere la commedia di Pirandello, e Donata Genzi, la protagonista, riuscì a stordire la sua interprete con una valanga di parole senza ritegno.

«Peppino, ti posso parlare un attimo…», chiese al regista, facendomi segno di seguirla con il copione in un’altra stanza, sperando di risolvere subito la faccenda. Espose il suo pensiero, aggiungendoci soltanto un pizzico di comprensibile afflizione: «Tutto quel pomposo finale, così lungo, così ripetitivo, io lo trovo insopportabile». Peppino e Valeria certamente si conoscevano, ma era la prima volta che lavoravano insieme. Si stimavano a vicenda, ma ancora non avevano raggiunto l’opportuna confidenza per affrontare con disinvoltura un testo così corposo. Fu lei a rompere il ghiaccio: puro istinto di donna, contro il rigore di un intellettuale che, però, di fronte alla vulcanica sincerità di lei, si sgretolò in un attimo. «Mentre leggevo, ieri – continuava a perorare la giusta causa con quella spavalda teatralità che aveva innata – mi sentivo inseguita dalle parole della Genzi che, secondo me, soffocano il personaggio. C’è troppa roba! Leggendo, in testa, mi si accavalla soltanto una gran confusione. Che ne dici se tagliassimo un po’?». Seguì un lungo silenzio, durante il quale Patroni Griffi cominciò a sfogliare le pagine dov’erano i lunghi interventi della Genzi, scritti (diciamolo pure) per compiacere le ambizioni di Marta Abba, e li ripassava, senza leggerli, foglio per foglio, prima in un senso e poi a ritroso. Alla fine: «Per me si può anche tagliare tutto», sentenziò Peppino. Il viso di Valeria si illuminò di felicità. Fu l’inizio di una bella amicizia e di una magnifica collaborazione.

Naturalmente qualcosa andava conservato di «tutta quella roba lì»: lo sapevano entrambi, ma preferirono rimandare la costruzione del finale per scegliere bene lo stretto indispensabile per chiudere il sipario senza appesantire la scena di logorroica solitudine d’attrice. La Moriconi dimostrò, con questa semplice lezione, di essere una prima donna al di là della complessità del ruolo. Esigeva meno dal copione per poter dare di più del suo impulso attoriale. E lo dimostrò sempre, in ogni occasione. Quando le battute finali della commedia furono tagliate, e concordate con gli altri attori, si raggiunse un equilibrio e un’intensità che il testo originale sembrava aver disperso, e l’agognata «liberazione» che la Genzi invocava in quelle pagine solo per sé, era il valore aggiunto dall’attrice sotto forma di appassionata leggerezza. Sul mio copione, dove oltre alle note di regia segnavo anche qualche curiosa boutade ascoltata in prova, a tal proposito, trovo scritto: «Marta Abba, una vergine folle!»; e accanto la sigla PPG che l’aveva pronunciata.

In tournée, a volte, Valeria pretendeva, con tutti noi, di essere la prima attrice quale indiscutibilmente era; altre volte invece, e per fortuna spesso, diventava l’amabile amica anche dell’ultimo nome in locandina: germogliava in lei il desiderio di essere la compagna di giochi e di battute che ognuno avrebbe voluto per sé. Nostra difficoltà era che dovevamo intuirlo per tempo: non c’erano avvertimenti che indicassero i suoi cambi di umore e di esigenze, tuttavia, la sua magnificenza d’attrice mai risentiva di queste differenze. In scena era sempre la stessa, ineguagliabile, implacabile e generosa, come non ne ho mai più viste. Una sera, su un palcoscenico minuscolo, per montare l’intera scenografia, fui costretto a sistemare l’apparecchiatura della fonica in ribalta di lato, di fronte al pubblico: malgrado l’impostazione della regia lo consentisse, io per l’imbarazzo non imbroccai un paio di interventi che si susseguivano uno dopo l’altro, e lei, da personaggio, senza cambiar toni, visto che ero lì, a pochi metri, esposto proprio come un attore, mi disse «Prego, prego, faccia con comodo» e riprese il dialogo come se nulla fosse. Un’altra sera, invece, in un teatro di paese, quando, pochi istanti prima d’iniziare, diedi il comando di mezza sala, nel silenzio che precede l’apertura del sipario, dall’altra parte, in quinta, una voce squittente annunciò «la mezza sala non c’è»: l’intera compagine scoppiò a ridere, ma l’improvviso timbro severo della Moriconi ci ridusse tutti in formiche: «Questo non si fa!». «E allora sala» dissi io, e poi «Sipario». Nonostante il rimprovero e il seguente impasse, fu una recita da incorniciare.

Insieme con Anita Bartolucci e Lino Spadaro, si andava spesso a pranzo o a cena insieme, e la sua presenza, ovunque, spalancava tutte le porte. Aveva una montagna di ricordi da raccontare, a cominciare da quelli con Totò e con Eduardo che più mi stavano a cuore, fino a quelli con Visconti e con Franco (che naturalmente era Enriquez), con la Lilla e con Glauco e tantissimi altri mostri sacri del nostro florido passato teatrale. Non ricordo dove, ma tra la fine di una pomeridiana e l’inizio della serale, mentre molti attori erano in pausa al bar e altrove, lei venne a sdraiarsi sul divano di scena. «Mi sento stanca, vorrei riposarmi. Fra mezz’ora potresti portarmi un caffè, per favore?». Al risveglio, senza che le chiedessi nulla, cominciò a parlarmi dell’Arialda di Testori (regia di Visconti, 1960), esperienza storica; raccontò delle proteste all’Eliseo che suscitò la prima, dei tafferugli che seguirono in strada, dell’inspiegabile sospensione dopo il debutto milanese. S’infervorò, imprecò contro i bigotti dell’epoca e contro la censura al punto che la interruppi: «Ti senti bene, ora?». E lei: «Mai stata meglio!» e proseguì come un’erinni.

In un altro teatro piccolo e fatiscente accadde che, in una situazione di coralità, un attore, per non coprire il collega dietro di lui, non sapesse ritrovare la posizione più agevole e finì, inavvertitamente, per impallare proprio l’interprete di Donata Genzi. Appena lui se ne accorse si voltò mortificato, e lei, sempre con grande prontezza di spirito, e rimanendo più che mai nel personaggio: «Non si preoccupi per me, caro, sono un’attrice».

Quando ci accingemmo ad andare a Jesi, lei stessa chiamò Patroni Griffi pregandolo di raggiungerci per il debutto nel «suo» teatro: lo voleva lì, sul palcoscenico accanto a lei per gli applausi, e dopo  ci trovammo insieme a cena a casa sua. Peppino aveva da poco terminato di scrivere un romanzo del quale stava cercando il titolo. A lui sarebbe piaciuto «Gioventù coatta», ma l’editore propendeva per un altro della lista stilata dall’autore: «Del metallo e della carne». Facemmo un gioco in cui ognuno doveva scrivere, in forma anonima, la sua preferenza. Valeria, sempre istintiva, andando contro il parere della maggioranza, insisteva per quello scelto dall’editore. Pochi mesi dopo Mondadori avrebbe pubblicato «Del metallo e della carne».

La tournée si concluse a Figline Valdarno. È consuetudine che durante l’ultima replica si organizzi qualche scherzo. Ad Antonio, il macchinista, non passò inosservata una battuta del primo atto che parla della «normalità delle galline». Mentre terminavamo di approntare le luci, mi disse che aveva visto un pollaio poco distante dal teatro e che s’era già messo d’accordo per farsi prestare, appunto, una gallina, dicendo al contadino che l’animale era indispensabile per la scena, come se lo esigesse il copione. L’uomo, assolutamente ignaro, fu ben felice di collaborare alla buona riuscita dell’arte, cosicché all’ora stabilita consegnò il volatile ad Antonio che lo attendeva davanti all’uscita dietro il palco. Quando mi resi conto che lo scherzo stava realmente prendendo consistenza, corsi in camerino. Bussai alla porta di Valeria e le dissi quali fossero le nostre intenzioni, ché mi sembravano un po’ esagerate. «Ma sì, chiudiamola con la gallina questa stagione. Chissà che non ci porti fortuna!». «Io però non so niente», aggiunse mentre le davo la mezz’ora.

La rappresentazione ebbe inizio e, alla parola convenuta, Antonio lanciò l’uccello tra i personaggi in smoking. La Moriconi, nel frattempo, senza farsi notare, s’era nascosta in quinta, ma dalla parte opposta, laddove la gallina, non sentendosi a proprio agio sotto i riflettori, cercò immediatamente riparo. Valeria, appena se la vide tra i piedi, le tirò una pedata per farla tornare al centro della scena e la povera bestia, aprendo le ali, spiccò un salto e s’avvinghiò a un attore che terminò la parte abbracciato alla gallina. Dopo poche battute sarebbe entrata lei, Donata Genzi, chiusa imperturbabile nel suo dramma, ma il pennuto nel frattempo era già stato riconsegnato al contadino.

La stagione seguente, Antonio prese il mio posto e io tornai al ruolo di assistente per un’altra avventura. Rividi Valeria altre volte, perlopiù in teatro. Durante una replica di Vetri rotti di Miller, al Quirino, rimasi nei camerini a sentire la recita (che avevo già visto e rivisto) attraverso l’interfono e fui rapito dalla limpidezza della sua voce, dalla pienezza dei toni che, anche se provenivano da un apparecchio primitivo e gracchiante, mi arrivavano convincenti, pieni di emozione. Glielo dissi, anzi no, con delicatezza glielo scrissi su un biglietto. Fu felicissima, seppi che si commosse. Infine al Sistina, era il 2001, per I figli della lupa e lei era la lupa. Una lupa un po’ stanca, a dir la verità. L’invitai a mangiare a casa dopo lo spettacolo. «Abito qui vicino, una di queste sere verresti a cena da me?»
«Certo! Quante galline mi hai preparato?». (fn)
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Foto: Valeria Moriconi in «Trovarsi» di Luigi Pirandello. Regia di Giuseppe Patroni Griffi (1992) (© Tommaso Le Pera)

 

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