LA LUMINOSA FAVOLA DELLE FUGHE IMMAGINIFICHE
A Vincenzo Consolo non piacque che, il 20 luglio 1969, il piedone di Neil Armstrong si posò sul suolo lunare: l’allunaggio a stelle e strisce, visto all’epoca come il più concreto successo del progresso spaziale, per lo scrittore messinese fu una impertinente intromissione nel mondo dei sogni e della poesia. La luna va rispettata per quello che per millenni è stata nella libera fantasia degli uomini. Che sono contadini (e non scienziati), marinai (e non astronauti), cacciatori, pescatori e soprattutto amanti e sognatori: da costoro sono nati i poeti della luna, i cantori del faro della notte. Da Omero a Leopardi, dalla romanza di Garcia Lorca alla canzone napoletana, la luna ha proiettato da sempre la primordiale faccia del sogno, la favola luminosa delle fughe immaginifiche. Detto tra noi (e per come sono andate le scoperte scientifiche), ha ragione Consolo: quell’evento ha rappresentato la prima inutile e volgare pedata che l’uomo ha tirato allo spazio!
L’autore, spinto dall’oltraggio ultramoderno dell’Apollo 11, per contrasto, ha immaginato un’antica vicenda, tipica del nostro sud, distesa ai margini del mito, laddove la storia comincia ad essere leggenda, ambientata nella residenza del viceré in una Palermo «settecentesca, degradata e indecente, città caduta affranta… misericordia di quiete dopo il travaglio… cielo che palpita di astri… profili di palazzi… cupole moresche… chiome di ficus e di palme...», introducendosi egli stesso nella camera regale, sotto le sembianze del cuntastorie Porfirio, «negro delle nuove Indie, che ogni mattina scosta appena le cortine» della finestra per destare dal sonno il nobile sovrano. Al risveglio del principe comincia una pietosa nenia popolaresca che descrive i tormenti della notte: Porfirio ascolta il sogno che ha gettato il viceré nel terrore, il quale ancora non s’è liberato dai sussulti e dal tremore perché ha visto cadere – nientedimeno che – la luna nel «giardino sopra i bastioni, tra le palme e le voliere, grande come il rosone d’una chiesa, che vomita scintille».
Naturalmente si tratta di un funesto presagio che va interpretato: motivo per cui a Palazzo si radunano, da ogni angolo del regno e anche da fuori, cerusici, accademici, tal Messer Lunato emulo di Icaro e rivale dei fratelli Montgolfier, decrepiti valletti dal sapor di gattopardo, improbabili nobildonne di una Spagna che non c’è, protomedici, astrologi ed eccentrici, tutti interpretati con diverso carattere e peculiare linguaggio dall’eclettico Pietro Montandon, che fa della sua esperienza professionale, unita a un ancestrale (che sta nelle viscere dell’attore) desiderio metamorfico, l’arte del teatro di piazza.
Siciliano l’autore, siciliano l’attore. E come in una esibizione dei pupi, la rappresentazione di Lunaria, così come ideata da Daniela Ardini che ne ha curato la regia, si porta dietro il bagaglio storico delle compagnie dei girovaghi, i cosiddetti scavalca-montagne, i quali viaggiando sui carri si alternavano nelle più remote piazze dei paesi della nostra penisola, soprattutto al sud. E particolarmente suggestiva è stata la recita vista nello slargo di Santa Vittoria, ad Anticoli Corrado, recintato da mura medievali. C’è aria di Trinacria anche nel nome del paesino laziale che nel 1256 fece parte della signoria di Corrado di Antiochia (da cui Anticoli), nipote dell’imperatore Federico II di Svevia, re di Sicilia appunto e promotore di quella Scuola poetica che ha segnato la nostra cultura. Non è sembrato, quindi, strano che nella fresca oscurità della valle d’Aniene, sotto la luna che faceva capolino da dietro ai tetti, risonava la lingua dell’isola di Consolo e di Pirandello, di Archimede e di Mattarella.
Le brevi note di regia informano che la scenografia «è basata sul contrasto tra le forme visive della tradizione siciliana e la raffinatezza essenziale dell’Accademia dei Platoni Redivivi». Certamente lo sarà; eppure, gli elementi scenici, nella semplicità della situazione di piazza, richiamavano fortissimi lo spirito della rappresentazione in forma di racconto da parte di un menestrello: una delle più antiche espressioni del nostro teatro popolare. Pensiamo alla Gerusalemme liberata, all’Orlando furioso, poemi tramandati al popolo, di piazza in piazza. Una pedana, due cantinelle incrociate e baule da viaggio, tutto il resto è attrezzeria e vestiario per camuffare e rendere verosimile l’illusione de lu cunto. La luna è un disco di cartone, il letto del sovrano è un telo di seta, Donna Sol un paio di scarpe, un bastone per il valletto, un copricapo d’aviatore per Messer Lunato, gli accademici sono soltanto fantocci a cui l’interprete regala la sua voce, più in là c’è il mondo che guarda dai visi dipinti e attende il responso. Tutto è finto e tutto è dato in pasto all’immaginazione del pubblico fuorché le voci. Così, come in una remota contrada senza nome si offre degno funerale alla luna, noi in un isolato borgo sopravvissuto all’antichità, ascoltiamo la favola dell’astro selenitico che è anche la favola delle lingue che Consolo accosta, mescola in frasi che sono anafore, allitterazioni, rime, vocaboli riesumati dal dizionario dantesco, provenzale e latino: una lirica suggestione evocativa e storica.
Foto: Pietro Montandon (© ???)