LE PAURE DELLA NOTTE DEL «RICCETTO DE BORGATA»
«Se la carbonara vuole il guanciale, la santità vuole il latino»: Metus noctis è una confessione psicologica dai sacri propositi, ma esposta costantemente al becero soffio del profano. Non a caso in apertura, il rito delle giaculatorie in latino ricorda l’atmosfera del Ferdinando di Ruccello, ma qui non siamo a Napoli. L’autore, napoletano doc, trova ispirazione nel mondo pasoliniano, recupera un linguaggio della Roma della fine degli anni Sessanta (primi Settanta, o forse proprio di quel dannato 1975) e s’immerge nell’animo tormentato di un personaggio tipico delle borgate di allora: Nino Ceccarelli. Costruisce un dialogo surreale in cui, alle apparenti influenze di una Chiesa severa, educativa e onnipresente, si riflettono le paure più concrete di uno scapestrato senza arte né parte. Roberto Russo indaga con piglio anche ironico nelle inquietudini notturne di Nino, ormai non più giovanissimo, rimasto orfano e incapace di guadagnarsi da vivere onestamente; entra nel mondo onirico del protagonista e ne tira fuori le occulte paure della notte. Sa bene che i marchettari che un tempo frequentavano le arcate dell’Esedra, là dove Pierpaolo Pasolini incontrò il Pelosi poche ore prima del suo massacro, sono molto restii a confessare le proprie insicurezze, le proprie fragilità, i propri timori: sarebbero stati pronti ad «ammazzare la madre» prima di ammettere qualunque debolezza.
Avevano l’atteggiamento spavaldo di essere i padroni del mondo, ma un mondo nascosto tra le pieghe dell’illecito e dell’immoralità, soprattutto in una Roma storicamente papalina e all’occasione assai perversa. Gianni De Feo, che interpreta Nino, assomiglia molto a uno dei tanti «riccetti» alla Pelosino o alla Ninetto Davoli: recupera i toni di voce e gli atteggiamenti tipici delle vittime della «angelica speranza», la nemica numero uno dei giovani di borgata, l’illusione sospinta dal desiderio di uscire allo scoperto, di venir fuori dalle loro tane distanti dalla dolce vita della capitale. Pelosi arrivava in centro da Guidonia. Il nostro Nino Ceccarelli dalla Giustiniana e, quando viene sorpreso nel sonno dalla voce che lo sveglia di soprassalto, subito si mette sulla difensiva, sa di essere stato beccato in flagrante al culmine di qualche sua malefatta. Ma chi è che, durante la notte, lo provoca tanto fino a destarlo dal sonno?
Ed ecco che la scrittura di Russo, da quest’incognita, prende consistenza: la figura che parla è una rappresentazione sacra, un’immagine ferma ripresa da un altarino di paese (gli essenziali arredi scenici sono di Roberto Rinaldi). Nino la scambia per la Madonna, e tutti noi in platea ce ne convinciamo, non potrebbe essere altrimenti. Ma poi le apparenze cambiano e la donna muta più volte d’identità, ma non si smuove dal proposito: far confessare a Nino i suoi peccati seguendo l’elenco stabilito dai dieci comandamenti. Mi piace ricordare il secondo: non nominare il nome di Dio invano. Nino, trattandosi di bestemmie e non potendo negare l’evidenza, si giustifica quasi con garbo, affrancandosi dietro un ragionamento talmente logico e sincero che perfino la Madonna è pronta a perdonarlo. «Sì, è vero, bestemmio spesso, però il mio è uno sfogo innocente, a fin di bene. Ché se non bestemmiassi, quando mi fanno arrabbiare, volerebbero coltellate a sangue». L’altra sorride, capisce che ha detto quasi la verità e amen. Ma l’elenco dei peccati è ancora lungo. Il dialogo va avanti. L’ectoplasma, da Madonna, diventa prima angelo e poi altro. Nino è messo alle corde e si sente nudo di fronte a un’entità implacabile che per lungo tempo identifica nella visione di una sconosciuta. «Ma com’è che io da morta ti sono venuta in sogno e tu da sveglio, invece, mi parli?». A quel punto Nino non è più annebbiato dall’illusione sempre onirica ma dai rimorsi di un passato che ora lo perseguita.
Foto: Gianni De Feo e Alessandra Ferro (© Manuela Giusto)