IL TESORO RACCHIUSO IN UN MANOSCRITTO DIMENTICATO
Chiunque abbia voglia di apprendere l’arte classica della locandina – come si impagina e come si posizionano in gran numero in un foyer e nelle vetrine in strada, affinché tutti vedano facilmente e comodamente – dovrebbe recarsi al Teatro Greco, dove si riconosce l’infallibile chiarezza della vecchia scuola: nome in ditta, titolo, autore, sottoditta, generici, poi l’elenco dei personaggi con gli interpreti accanto, addirittura sono indicati i doppi ruoli vicino al nome dell’artista, e anche il raro caso di due attori che seguono un solo personaggio (per evitare le antipatiche pecette nel caso di una imminente sostituzione), quindi immancabile il sigillo della regia, e infine la lista dei crediti di coloro che hanno collaborato alla realizzazione dello spettacolo, con la definizione della mansione comprensibile, nella lingua nostrana anziché in inglese che serve soltanto a mascherare inappropriate insoddisfazioni.
Ed è proprio Don Eligio – l’ecclesiastico che a breve troverà un altro interprete – il personaggio chiave della regia che Marco Tullio Giordana firma di quest’adattamento del romanzo pirandelliano Il fu Mattia Pascal. L’idea di affidare il manoscritto delle memorie già completo all’amico prete, amante delle più svariate letture su rare cinquecentine e seicentine, è la giusta intuizione per risolvere in maniera coerente le mancanze determinate dai tanti tagli che nella trascrizione teatrale sono imposti per rispettare i tempi canonici di uno spettacolo. Nell’originale, Mattia Pascal avverte di aver ricevuto da don Eligio Pellegrinotto il consiglio di scrivere la sua storia. E a lui affiderà «il manoscritto appena sarà terminato, se mai sarà.» M. T. Giordana e G. Gleijeses, autori dell’adattamento, invece, optano per un memoriale già finito, cosicché il dotto prete, prendendo in consegna lo scritto, diventa immediatamente il conduttore della storia, quasi fosse lui il narratore, il suggeritore d’arte, padrone di saltare da una pagina all’altra per evitare a noi del pubblico di assistere a scene che ci avrebbero trattenuti in teatro almeno per un paio di giorni.
Doppiamente giusta l’idea, soprattutto per il tipo di recitazione per la quale Geppy Gleijeses è maggiormente portato, quella più leggera, divertente, quella che accarezza l’antica comicità partenopea e che in questo tipo di operazione funzionerebbe a meraviglia. Spalleggiato da un ottimo Totò Onnis, in qualche occasione i due hanno accennato a duetti comici di antico stampo: con l’uno che suggeriva le battute (i numeri su cui puntare) all’altro, con l’altro che ribatteva, a metà tra il personaggio e l’attore, al modo di quegl’incantevoli guitti d’arte che oggi tanto rimpiangiamo. L’idea, dunque, era indovinata, ma purtroppo ne è stata realizzata soltanto l’imbastitura: è mancato il coraggio di farne il filo conduttore che avrebbe risolto, con teatrale disinvoltura, molte situazioni delicate e avrebbe aiutato a superare i tanti ostacoli della riscrittura. Un solo esempio per chiarire: quando ad Adriano Meis vengono sottratti i soldi che egli aveva nascosto, mentre ancora si confida con Adriana che lo esorta a denunciare, inspiegabilmente, appena altri giungono nella stanza, cambia versione: «Ho ritrovato il denaro», dice all’improvviso, senza aver mosso un passo e senza aver diagnosticato un pensiero, proprio in faccia a colei che aveva ascoltato l’accusa contraria. Pirandello, tra la scoperta del furto e il falso ritrovamento, si cautela lasciando il Meis solo e sconsolato, immerso nelle sue afflizioni, a ragionare sulla sua colpevolezza di essere un nulla nei confronti della legge. Un ragionamento fondamentale che manca nella versione teatrale, finanche con un accenno.
Come questo, sono anche altri i sobbalzi che ci impone l’adattamento firmato Giordana-Gleijeses, un copione che corre sempre e soltanto sul binario della trama, senza mai soffermarsi sui ragionamenti. Mi chiedo: cosa resta di Pirandello se lo si monda del pirandellismo? Sfruttando meglio l’apporto del manoscritto consegnato nelle mani di un «autore» che sta in scena, quindi un narratore-personaggio che in quel momento custodisce un vero e proprio tesoro letterario, si sarebbe potuto architettare un altro tipo di teatro, dove la logica pirandelliana – quella che ha dato vita al romanzo – venisse riesumata dal libro mastro e dall’arte comica dell’attore protagonista e della sua abile spalla. Invece, per tutta la prima parte del secondo tempo, il prete scompare portandosi via il copione che, anzi, non dovrebbe mai lasciar la scena per essere consultato, vissuto, realizzato e rinnegato dai personaggi stessi. E in realtà è stato anche rinnegato, giustamente rinnegato per portare avanti lo svolgimento dei fatti, ma – avverte altrove Pirandello – «un fatto è come un sacco, vuoto non si regge. Perché si regga, bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato». È racchiusa in questa formula l’incompiutezza del doppio dramma di Mattia Pascal, alias Adriano Meis.
Con microfoni soffusi
