OMBRE E VOCI DI UNA VITTIMA DEL BULLISMO
Di solito a Roma spettacoli in lingua straniera non se ne vedono molti; quando passano nei nostri teatri è perché dietro c’è una grossa organizzazione, un festival internazionale – come il RomaEuropa Festival, per nominare il più ricco e famoso – uno scambio culturale dovuto a un gemellaggio comunale da omaggiare. Sono eventi rari, anche a causa – diciamo la verità – della nostra pervicace idiosincrasia a praticare con scioltezza le lingue straniere. Sònia Barbosa, andando controcorrente, sfida questa monolitica diffidenza nazionale e propone al Cometa Off, con una produzione che non è certamente quella dei teatri maggiori, ma che comunque assicura la proiezione della traduzione simultanea, un testo scritto in origine nella nostra lingua da Letizia Russo che lei ha tradotto, ha diretto, e ha già rappresentato nel suo paese in versione bilingue: portoghese e italiano. Ecco spiegato il doppio titolo sul manifesto: Scavare – Escavar, che ovviamente per il debutto settembrino di Viseu (nell’entroterra di Oporto) e le repliche di Lisbona era stampato a parole invertite. In scena, insieme con Sònia, portoghese vissuta in Italia per sette anni, c’è Giada Prandi che ricopre il ruolo secondario, sì, ma fondamentale per la riuscita degli intenti: se infatti bisogna scavare, qui si scava nella memoria, e Giada rappresenta proprio la voce della memoria della protagonista.
Il personaggio principale è Joana che si presenta da sola davanti all’ingresso dell’appartamento dove ha vissuto dai 14 ai 19 anni. È una casa rimasta chiusa dal giorno del funerale di sua madre. È la prima volta, dopo molto tempo, che vi fa ritorno, e ancora con la chiave che trema dinanzi alla serratura una Vocina, uma Vozinha, le apre la porta dei ricordi che s’affacciano alla mente come traumi dell’infanzia, timori mai sopiti, fantasmi mai dimenticati. Se Joana parla portoghese (con qualche accenno alla nostra lingua, sparso qua e là, senza una vera logica, proprio come chi ha vissuto a lungo in terra straniera e trova più facile ritracciare alcuni significati in un altro vocabolario), la Vocina s’insinua nelle paure, nei silenzi terrorizzati dell’altra in italiano ma con improvvise virate nell’altro idioma iberico.
La scena si apre su un gioco di luci, creato da Cristòvão Cunha, attento e particolare e ben ispirato dal prologo. Di fronte al pubblico c’è la protagonista, in abiti dozzinali e scarpe grosse, ma sul fondale la memoria, più elegante e ormai emancipata mostra la leggerezza dei piedi nudi, riflette le sue grandi ombre, che incombono sempre più minacciose. Infilare la chiave nella toppa pare sia un’impresa al limite del ridicolo, e la Vocina esorta Joana a non trascendere: «Roda, roda, gira la chiave, abbi il coraggio di entrare», ma l’altra prima esita, poi tentenna, e infine finalmente apre, dopo aver esplorato con un volo pindarico finanche i remoti pericoli scampati dagli archeologi che per primi visitarono le piramidi. La scrittura della Russo, che inizialmente cerca ironie e strappa anche qualche risata, appena Joana varca la soglia affonda nell’indagine del passato. La mamma e soprattutto la scuola: tra l’onirico e le rievocazioni tornano alla mente le ragioni di tante cicatrici dalle quali sbocciano i segni di un’adolescenza crudele, sofferta, vissuta nel silenzio di chi è vittima del bullismo dei coetanei. I compagni di classi, altri incontrati in autobus nel tragitto fino a casa. Poi ci sono i rimproveri della madre per i continui ritardi, per i brutti voti per la solitudine. Un periodo che dovrebbe essere allegro e spensierato ma che invece si trasforma fino a consumarsi tra le mura di una stanza per proteggersi dalla cattiveria del mondo.
Con sottotitoli per la traduzione simultanea
