23 gennaio 2024

Riflessione al termine di una serata imbarazzante

Paolo Villaggio in «Fantozzi» (1975)

 IN MEMORIA DI UNA «CAGATA PAZZESCA»

Il libero mercato non s’addice al teatro: così i palcoscenici off rischiano il disonore

Succede! Sì, succede di assistere a spettacoli davvero indegni. È accaduto in passato e continuerà ad accadere. Spettacoli che non hanno senso. Spettacoli nati dalla penna di autori incomprensibili, dati in pasto a registi vegani (quelli che non sanno distinguere la carne dal pesce), i quali affidano il «bel canto» ad attori che ululano insensatamente. Tuttavia ho notato che gli attori, sempre più spesso, sono i meno responsabili di questi soventi supplizi. In verità, però, dopo oltre un anno di recensioni ufficiali per Quarta parete (che grazie ad Andrea Cavazzini offre la possibilità di esprimerci liberamente) e decenni di frequentazione tra platee e palcoscenici, leggendo tra gli appunti personali alcuni giudizi più riservati e mettendoli a paragone con quelli del passato, si scopre una strana anomalia che segue l’andazzo generico del malessere del Paese. La corsa al denaro.

Ormai tutti noi abbiamo avuto parecchie esperienze con quel tipo di vendite e offerte che propongono i call-center. Quando ci squilla il cellulare e una voce ci offre un prodotto da acquistare o un contratto «vantaggioso» da stipulare, sappiamo benissimo che chi ci propina l’affare, in realtà, non sa niente di quel che sta vendendo. L’incauto piazzista – protetto dall’anonimato di un telefono – ripete meccanicamente parole lette su uno schermo che ha di fronte o, quando va meglio, su una scheda tecnica. Spesso non sa quello che dice. Spesso è uno straniero che a stento capisce l’italiano: tant’è che ormai abbondano le registrazioni automatiche. E allora mi chiedo: cosa ne sa una registrazione dell’offerta che propone? Assolutamente nulla. È soltanto un ingranaggio automatico che genera un giro di denari a volte esorbitante in un mercato cosiddetto libero.

Non è molto diverso quel che accade da qualche tempo nell’ambiente della distribuzione teatrale.

Bazzicando assiduamente da oltre un anno per teatri piccoli, quelli a cui un sottobosco culturale derivato dagli anni Sessanta ha imposto l’identità di off, mi sono convinto, e credo non a torto, che la triade artistica – autori, registi, attori – sono i meno colpevoli delle loro cadute. Costoro propongono un prodotto (che in questo caso chiamiamo opera) in cui credono e di cui conoscono tutto. Qualcuno, tra questi, talvolta pecca di presunzione, ma pochissimi agiscono in malafede. Seguendo una logica dantesca, sarebbero da spedire al purgatorio: nessuno sarà mai condannato all’inferno. Quantomeno perché costoro ci mettono la faccia, l’onore, il curriculum.

A cominciare dal pubblico, invece, sono tutti responsabili; compresi i critici menzogneri. Ognuno ha la sua parte di responsabilità sul malessere generale del teatro. Gli spettatori, che sono quasi sempre amici e conoscenti, e che beneficiano di ingressi di cortesia e di biglietti ridotti, a fine spettacolo si sentono obbligati a elogiare i loro beniamini, prendendo inconsapevolmente il loro posto: sì, perché gli ipocriti anticamente erano gli attori, cioè coloro che praticavano la finzione; ma così facendo diventa ipocrita lo spettatore che per celia finge spudoratamente in cambio di un biglietto a prezzo scontato. Lo spettatore onesto dovrebbe ritrovare la dignità e il coraggio di fischiare lo spettacolo farlocco. Un giudizio poco sincero non giova al teatro. Infatti, anche il critico, benché abbia l’obbligo di osservare in silenzio fino al termine la rappresentazione, poi ha il dovere di informare pubblicamente e con onestà che tizio non sa recitare, che caio è un pessimo metteur en scene, e sempronio scrive bazzecole insensate. Tuttavia, anche se i loro peccati sono abbastanza evidenti e tendenziosi, il plauso che il pubblico dispensa e le opinioni che i critici esprimono non possono ascriversi alla fraudolenza: un posto accanto alla femmina balba, potrebbe essere il luogo più consono dove poter scontare qualche anno per purgarsi.

Distaccandosi dall’appassionata analisi di uno spettacolo, dalle emozioni che esso suscita e dalle noie che ne derivano, gli appunti riservati evidenziano un paio di categorie a latere davvero responsabili di questi supplizi teatrali: sono loro i consiglieri fraudolenti che dovrebbero fasciarsi con le fiamme che ricoprirono all’inferno Ulisse e Diomede. Sto parlando dei gestori dei teatri e degli addetti all’ufficio stampa: il buon Cavazzini – che si trova nel doppio ruolo di giornalista responsabile di una testata e addetto stampa – non me ne vorrà, ma se i primi vendono i biglietti per un prodotto che ignorano almeno fino al debutto, i secondi promuovono uno spettacolo che non hanno visto e di cui talvolta non conoscono nemmeno gli artefici.

In quest’ultimo periodo mi son trovato più di una volta a commentare una rappresentazione infelice insieme a coloro che gestiscono lo spazio scenico e con chi promuove lo spettacolo – dopo un po’ ci si conosce un po’ tutti! – e con loro ho diviso entusiasmi e delusioni. Ma a pensarci bene sono proprio loro che agiscono come i venditori del call-center che propinano fregature senza nemmeno sapere quel che fanno e il danno che arrecano al mondo dell’off che così facendo rischia il disonore.

I gestori – che solitamente affittano la sala a percentuale sull’incasso – firmano un accordo con gli artisti (o chi per essi) a scatola chiusa, il cui prodotto per gli spettatori non è garantito da nessuno se non dal nome del teatro, il loro teatro. Invece non sanno niente di quel che accadrà sul palcoscenico: luogo sacro che chiunque potrebbe indorare con la propria arte o insozzare con qualsiasi porcheria. E purtroppo così accade! Gli addetti all’ufficio stampa promuovono un prodotto basando la loro vendita soltanto leggendo poche righe su un comunicato scritto dall’autore o dal regista dello spettacolo che naturalmente, nella maggior parte dei casi, sono sinceramente convinti del valore della loro opera.

Se io gestore ospito una compagnia nel mio teatro, è ovvio che garantisco per essa con la mia faccia e il nome del mio teatro. Se io ufficio stampa promuovo uno spettacolo, ci metto la mia professionalità e garantisco per esso. Il teatro non può essere un prodotto da call-center, non deve, non ne ha le capacità economiche per sostenere l’impresa! Stiamo parlando – lo sappiamo bene – di un giro di denari irrisorio in confronto al precedente. Non può essere venduto al pubblico senza un’attenta valutazione, come impone il libero mercato di prodotti standardizzati. Perché bruciarsi per pochi centesimi? Per amore del teatro? Eh no, il teatro va anche rispettato! Non si può dire di amare il teatro se non si sa quel che si propone. Che si cominci a fare una selezione seria e coscienziosa degli spettacoli che vanno in scena. Ha ragione Fantozzi: se «la Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca», non s’ha da fare. Forse è tutto il sistema che va ripensato. Il libero mercato non s’addice al teatro. (fn)

Pubblicato anche su Quarta Parete il 23/1/24


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