A MAURIZIO DE GIOVANNI NON BASTA METTERCI LA MANO
Lettera aperta a Gianpiero Mirra, produttore dello spettacolo in scena al Parioli
Caro Gianpiero, in nome della nostra ormai antica amicizia, facendo uno strappo alla consuetudine professionale, mi permetto di scrivere direttamente a te, come in una lettera aperta, le mie impressioni su Mettici la mano, in scena al teatro Parioli fino a domenica 21 gennaio. Essendo tu il produttore dello spettacolo, penso che nessuno più di te possa apprezzare e comprendere l’inconsueta iniziativa. Sei figlio d’arte e sin da piccolo sei cresciuto tra le polveri del palcoscenico – per un periodo respirammo persino la stessa: una polvere all’epoca di stelle, naturalmente, oggi scomparse. Non possiamo negarlo, siamo stati fortunati a conoscerle, a frequentarle. Quindi – con te non posso fingere – tu sai cos’è il teatro.
Di davvero teatrale, puoi immaginarlo, mi ha colpito la bella scena di Toni Di Pace. Credo che sia una delle realizzazioni più riuscite osservate questa stagione, anche se di un realismo ormai inusuale: ma forse, proprio per questo, lo spaccato visivo è d’effetto. Riproduce perfettamente l’immagine di una Napoli impoverita e nascosta nell’immediato sottosuolo, con le antiche arcate, le grandi pietre tufacee tipiche della nostra città. Potrebbe ricordare anche gli scantinati dei palazzi nobiliari del centro storico. Questo spazio sotterraneo, ma non troppo, funge da rifugio di fortuna per i nostri tre protagonisti, colti all’improvviso dalle sirene che annunciano l’ennesimo bombardamento delle truppe alleate.
Maurizio De Giovanni, autore del testo, ambienta l’episodio (il termine televisivo, purtroppo, è quasi obbligatorio) nella primavera o nell’estate del 1943, quando i tedeschi erano ancora a Napoli e le fortezze volanti facevano le loro incursioni quasi giornaliere per sbranare, a morsi di bombe, brandelli di città. Tuttavia l’importante quadro storico, già usato dal teatro classico partenopeo, fa da sfondo a uno sbiadito dipinto umoristico. Perché sbiadito? Perché, anche facendo uno sforzo e non volendolo nominare, quel titolo eduardiano è talmente ingombrante che – caro Giampiero, ricordi? – il pensiero di chiunque è volato a Gennaro Iovine (oltretutto se n’è parlato molto ultimamente). D’altronde, costruire un solido umorismo sotto i bombardamenti è materia per eletti. E De Giovanni non sembra essere all’altezza, tant’è che in più occasioni si è rivolto proprio a quella grande lezione del passato: «È rispustera» dice Maione, proprio come Eduardo nel suo Natale, quando inventa un originale epiteto per Ninuccia; «Che razza di bestie ci sono qui?», si chiede sempre il brigadiere, come Titina nel boschetto dei fuorilegge in un famoso film con Totò e Peppino. Mi chiedo, e credo che anche tu abbia aguzzato la curiosità in tal senso: sono citazioni di riconoscenza o sono ancore di salvataggio? Già il soprannome del femminiello mi sembra un dichiarato omaggio a un personaggio ormai entrato nell’empireo della canzone napoletana. Viviani ne sarà certamente contento: la sua «Bammenella» sopravvive anche nel mondo della televisione digitale, anche se sotto (mentite) spoglie poco femminili.
Che dire del finale scontato, annunciato già a metà commedia con un improvviso svenimento della ragazza? A proposito, tra i due protagonisti s’accende una strana gag sulla parola prena, che il napoletano usa esclusivamente per le donne pregne, ossia incinta, e non per altro; l’equivoco, sostenuto in scena, con piena risulta alquanto forzato, infatti, il corrispettivo è chino (al maschile) e chiena (al femminile). A Napoli anche i più piccoli sanno che se la mamma è prena ci sarà per loro un fratellino, ma se la sua pancia è chiena è perché durante le feste ha esagerato con gli struffoli! Anche una falsa citazione storica, mi ha colpito: quella riferita alla ruota degli esposti all’Annunziata, che nel ‘43 già non funzionava più da almeno 60 anni. De Giovanni dovrebbe saperlo!
Sono tutte superficialità da dare in pasto ai televisivi che si ubriacano di sciocchezze. La stramaledetta televisione, che in passato ha succhiato tanta linfa vitale al teatro, e ora restituisce un prodotto già masticato da milioni di persone e già precario, un prodotto che ormai tutti conoscono (tranne chi, come il sottoscritto, la sera frequenta platee ignorando le serie tv, come quella del Commissario Ricciardi, da cui la pièce è tratta). Tu, che sei impresario, sai perfettamente che gli esperimenti piccoli, come quelli che si possono provare in palcoscenico con tre attori, servono a tastare il terreno per programmare quelli più grandi. Fare il percorso inverso ha uno scopo molto differente, che troppo somiglia – anche questo – a un’ancora di salvataggio. Ne convieni, caro Gianpiero? Ti sei accorto che l’umorismo del De Giovanni è vittima di cadute di stile tipiche di una prosaica programmazione televisiva, dove – per esempio – al cospetto di un femminiello, per strappare una grassa risata, si ricorre addirittura all’evocazione della banana? Una battuta che al Salone Margherita, già nel Dopoguerra, probabilmente avrebbero accolto con qualche perplessità.
Il vero problema, e tu che sei nell’ambiente da prima di me lo hai già sperimentato, è che ormai il pubblico che va a teatro è talmente infarcito di pessima televisione che è pronto ad applaudire ad ogni schiamazzo, a un qualunque bercio stonato (non è questo il caso, per carità, non fraintendermi), a una volgarità oltre misura, e subito esplode il tripudio in platea. L’importante è che sul palco ci sia il volto vivo del loro beniamino a 85 pollici.
Foto: da sin. Antonio Milo, Adriano Falivene, Elisabetta Mirra (© Anna Camerlingo)
Pubblicato anche su Quarta Parete l'11/1/24