NEL VORTICE CALIENTE DI MARIA PAOLA
Una voce amica, dopo aver letto l’ultimo articolo, mi ha detto che con «i teatri piccoli», quando scrivo, sono più buono; ciò significa che con quelli «grandi», probabilmente, sono più severo, e, superati i cinquecento posti, il giudizio si affila. Be’, si deve affilare! Comunque non bisogna parlare di chi scrive, ma l’osservazione ben si addice al concetto teatrale che è venuto fuori dalla presentazione della stagione 2024/25 del Centro culturale Artemia, a ridosso della via Portuense: il nido di Maria Paola Canepa che lo gestisce con caliente armonia sudamericana da dodici anni. Armonia in questo caso significa: senza microfoni, senza contributi video, senza giochi di luci, senza scenografia, senza effetti musicali e – last but not least – senza sovvenzioni. Basta uno sgabello per sedersi, la mazzetta delle locandine da sfogliare e tanta benedetta voglia di annunciare che tutto è pronto per cominciare a far teatro. Ma, avverte subito, «le locandine sono tutte mie creazioni»: lei le immagina, le disegna, le stampa e le racconta al pubblico degli affezionati con le notizie degli spettacoli. Quest’anno sono diciannove.
Tre recite per ogni titolo, però. Quindi, insieme con Christian Angeli, regista che all’Artemia ormai è di casa, sostenendoci l’un l’altro come il gatto e la volpe, siamo andati subito a tastare il terreno: bisogna allungare i tempi, occorre dare la possibilità agli attori di crescere, al pubblico di venire a teatro, al passaparola di correre per la Portuense fino alla Magliana. Alle nostre amabili proteste, però, le obiezioni mosse dalla Canepa sono apparse più che concrete, tuttavia, qualche speranza per raddoppiare i tre giorni l’abbiamo captata. La missione è appena cominciata: ritorneremo sull’argomento con più tatto.
«Nel mio teatro nessuno affitta la sala». Per Maria Paola, gli attori i registi e gli autori sono tutti amici, tutti collaboratori, perché veri amanti del teatro. Non di rado sono loro che si alternano al bar del foyer, a sistemare tavoli e sedie. Il pubblico compra il biglietto e poi si divide l’incasso. All’Artemia non si paga alcun «minimo garantito», quella cifra (che solitamente va dai cento ai duecento euro al giorno) che molte altre sale e salette impongono alle compagnie ospiti per evitare di rimetterci di tasca propria. Il teatro è «un rischio che s’affronta insieme per non soccombere». Non a caso l’artemia, un piccolo crostaceo di mare, ha imparato a sopravvivere anche alle più estreme condizioni, adattandosi agli ambienti ostili. Proprio come il teatro che ha ripreso vita e forza dopo la catastrofe pandemica. Soltanto gl’improvvisati e i voraci si ostinano a tenere il sipario chiuso: chi per incapacità, chi per convenienza. Con i teatri grandi – rispondo ora alla voce amica – non si può essere troppo buoni: lì girano troppi soldi, gli interessi si moltiplicano e i danni sono gravi e invasivi. Il mondo dei «teatri piccoli» è governato da un regime molto più artigianale e non può, e non deve, essere paragonato agli enti sovvenzionati.
All’Artemia, la Canepa riesce anche a ospitare compagnie dall’estero: «È in programma uno spettacolo in lingua spagnola». Vengono anche gruppi teatrali da Napoli: «Sì, abbiamo fatto un interessante accordo con il teatro Serra che si trova ai Campi Flegrei, ma anche con il Nuovo alla Sanità». Sono soprattutto i concorsi che offrono l’opportunità di uno scambio tra i lavori premiati: quelli che vincono a Roma vanno a Napoli e viceversa. È una politica teatrale che agisce grazie all’entusiasmo dei giovani, ed è facile intuire che con loro tutto si semplifica, ma non sempre, però, si raggiungono obbiettivi concreti di crescita organizzativa, quella che darebbe la possibilità di aumentare il numero delle repliche.
Dicevo all’inizio che nel locale di Maria Paola si respira un’armonia sudamericana perché lei è Argentina di Buenos Aires, e il suo modo di accogliere il pubblico e gli amici, con un bicchiere di vino sempre pronto sul bancone, la sua risata accattivante, una leggerissima inflessione spagnoleggiante che ammorbidisce tutte le labiali e le sibilanti, risente di quel vortice di allegra fratellanza di cui vanno fieri i latino-americani. C’è una innata spensieratezza in loro che non è mai superficiale, ma anzi trasmette fiducia e ostinazione.
Valori che ho riscontrato integri al termine della più informale delle conferenze, dopo un provvidenziale e tempestivo brindisi, nel racconto personale che la padrona di casa mi ha rivelato. Durante la presentazione, infatti, come una folgore, il ricordo improvviso della nonna le ha irradiato lo sguardo di profonda tenerezza. «Mia nonna era italiana, emiliana. Tutti i miei nonni erano italiani. Ma con lei, la mamma di mia madre, sono cresciuta in Argentina. Oggi, se fosse viva, avrebbe 101 anni». Nata nel 1923. Cresciuta nell’Italia fascista, ma nella regione ideologicamente più ribelle alla dittatura. «Venne a Roma a lavorare a Cinecittà. Faceva la sarta per gli attori. Poi la guerra e l’opportunità di emigrare in Sudamerica» dove nacque la mamma di Maria Paola.
«Anche lì continuò a fare la sarta, ma in teatro. Erano spettacoli pieni di piume e di paillettes, con vestiti coloratissimi e un po’ esagerati. Aveva bauli pieni di stoffe e di abiti e mentre lei lavorava alla macchina da cucire, io cercavo di imitarla alla mia più piccola. Seguivo i suoi consigli, ma soprattutto restavo affascinata dalle sue storie italiane di quand’era bambina». Ecco perché, a 23 anni, Maria Paola è sbarcata in Italia ma… «I primi tre mesi non mi sono bastati e, dopo poco, sono ritornata. Ed eccomi qui». Anche quest’estate è andata in Argentina: «La mia casa è laggiù. È lì che sono nata».
Foto: Il foyer del teatro del Centro culturale Artemia (© ???)