SE PER ESISTERE ABBIAMO BISOGNO DELLA GUERRA, NESSUNO CI SALVERÀ
Vedere il mare in teatro è certamente un effetto straordinario. Vederlo sbattuto e sollevato dalle onde in tempesta lo è ancor di più. Vederlo in verticale mentre spinge e trascina, solleva e inghiotte il corpo affannato di un naufrago è, nella nostra concezione, soltanto un trucco cinematografico. Invece no: è il teatro, tra l’immaginifico e il visionario, dei Baro d’evel, gruppo franco catalano, approdato nella capitale grazie a Romaeuropa festival che, con la Fondazione del Teatro di Roma, offre la possibilità di conoscere altre realtà dello spettacolo che arricchiscono, e non poco, il panorama europeo. Ben lontano dal classico teatro di prosa, la compagnia, composta da dodici artisti (più una bambina «addestrata» su piazza), si esibisce sul palcoscenico dell’Argentina combinando danza, mimo, musica e arte circense per dar consistenza alle fiabe che spesso esplorano il buio, non solo della nostra intimità, ma anche della nostra quotidianità sociale.
Qui som? è il titolo, che in lingua catalana vuol dire chi siamo? Ma vedendo lo spettacolo ci si accorge che la domanda contiene anche le altre due che completano il canonico trittico: da dove veniamo? e dove andiamo? Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias portano in scena, una tragedia muta o quasi. Le parole, infatti, sono poche, per lo più didascaliche, emblematiche, illuminanti per seguire il testo non parlato che poeticamente ipotizza gli ultimi giorni dell’umanità. E quando tutto sembra finito nel peggiore dei modi, ecco risorgere l’entusiasmo vitale e ribelle che apre una celebrazione festosa che inneggia alla vita e alla bellezza che non dobbiamo mai perdere d’occhio.
Entrando in teatro, sparsi qua e là, si sentono piccoli rintocchi, secchi, di cocci picchiettati: indicano il punto di partenza del declino universale e sociale. È il timido canto dell’argilla – materia lavorata dall’uomo, resa nobile dalle nostre mani – ossia la terra, elemento primordiale insieme all’acqua. Lo spettacolo è costruito su questi due elementi che in natura si sposano perfettamente per creare la vita e che noi abbiamo in pochi anni ridotto a un cumulo di immondizie. Le nostre scorie hanno ricoperto la bellezza, perché troppo spesso non ci accorgiamo di quanta meraviglia ci circonda, non poniamo attenzione alle cose belle che ci accarezzano, e quando all’improvviso non le vediamo più, subito ne piangiamo la scomparsa.
Lo spettacolo comincia con un breve prologo ad hoc, simpatico e provocatorio (cifra che con qualche leggerezza accompagna la fascinazione delle scene): Camille Decourtye, l’autrice e protagonista – sì, proprio lei – invita il pubblico a spegnere i cellulari, mimando con un gesto significativo le barriere che quest’oggetto pone davanti al nostro sguardo che invece dovrebbe essere sempre libero, aperto e illimitato per vedere meglio il mondo, cioè gli altri. Il concetto di comunità ritorna in ogni scena: il contatto con il prossimo ci salva dalle cadute che un altro provoca, e sapere chi si ha accanto potrebbe essere una ricchezza che troppo spesso sottovalutiamo. Perfino Babbo Natale si accorge troppo tardi di aver stretto tra le braccia la fiducia di una bambina ormai disincantata dal suo stesso atteggiamento dispotico.
C’è troppa rabbia a questo mondo e troppa fretta che impediscono l’evolversi della riflessione, offuscano la visuale espansiva, e la conseguenza è davvero drammatica: c’è chi pensa a fare la guerra solo per sentirsi vivo; chi si inventa una guerra per convincersi d’esistere, per riempire i vuoti che abbiamo creato con la cecità e la solitudine. E forse è proprio l’eccessiva attenzione che poniamo al cellulare che ci toglie «la connessione di base», l’amicizia, la fratellanza, la solidarietà. Senza queste necessarie virtù rischiamo di naufragare in un mare di scorie, sommersi dalle plastiche, che sono la conseguenza del nostro menefreghismo, del nostro egoismo, del potere illimitato che abbiamo dato alla vanità, per cui Dio – sostengono Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias – ci è sfuggito di mano e si è nascosto in un buco. E nessuno ci salverà.
Pur se con qualche dispersione (soprattutto nella parte finale), qui termina la fiaba, la prima di una trilogia, dei Baro d’evel, che naturalmente contiene una morale: non abbandoniamoci a questa tragedia che stiamo costruendo con le nostre mani, amiamo la vita e andiamo tra la gente a festeggiare. Così il corteo dei musicisti, danzatori e cantanti lascia il palcoscenico ormai buio, invade festosamente la platea illuminata, e, seguito dal pubblico, raggiunge il largo di Torre Argentina e lo spettacolo continua in piazza tra musica, balli e applausi gioiosi.
Foto: La compagnia Baro d’Evel (© ???)