29 settembre 2024

«Il tempo che ci vuole» di Francesca Comencini

Roma, Cinema Caravaggio
28 settembre 2024

LA VITA VIENE PRIMA DEL CINEMA

Dio solo sa il tempo che ci vuole a capire quello che siamo, la nostra vita, le scelte, le ragioni delle cadute che ci hanno frenato; il tempo che ci vuole a comprendere la parola adulta, l’amore infantile, la favola bella che ieri ci illuse; il tempo che ci vuole per maturare, per decifrare una delusione, per scoprire il significato di un dolore; il tempo che ci vuole per trovare il filo del racconto di un amore che fino a un attimo prima non sapevi nemmeno perché; il tempo che ci vuole per accettare quello che sei, quello che hai, e quello che hai scoperto di essere per te stesso. Francesca Comencini ci ha messo del tempo, non importa quanto, per arrivare a decodificare tutto questo, e lo ha fatto con coraggio e devozione, con amore e con poesia nel film dedicato al rapporto con suo padre. Ce l’ha fatta: e, se è vero che «viene prima la vita e poi il cinema», questo è il più grande successo; se poi arrivano anche i riconoscimenti di pubblico e di critica per l’opera compiuta, ancora meglio.

Per fare l’ultimo film, già presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia, la Comencini ha impiegato almeno 40 anni. L’idea o la sceneggiatura probabilmente – avverte il personaggio di Francesca – è nata quando suo padre era ancora vivo e quando lei era da poco uscita dal tunnel della droga. Un film autobiografico quindi, che papà Luigi non avrebbe mai voluto vedere: sarà per questo che il soggetto, o il trattamento, è rimasto nel cassetto per così lungo tempo? Non si sa. Certamente, però, all’epoca, Francesca non aveva ancora trovato il modo adatto per raccontare un dramma legato alla comune tossicodipendenza in una particolare testimonianza affettiva: non aveva ancora maturato il suo linguaggio cinematografico. E papà Luigi l’aveva capito. Ci vuole tempo, dice! E ci vuole tempo per capire come essere la figlia di Luigi Comencini: il regista di tanti film memorabili (L’imperatore di Capri, Pane, amore e fantasia, Pane, amore e gelosia, Tutti a casa), ma soprattutto il regista di quel Pinocchio televisivo che divenne il simbolo della spensieratezza infantile negli anni bui, i cosiddetti anni di piombo, gli anni del primo violento boom della droga.

A rivedere oggi le immagini del burattino di Collodi, incarnato allora (1971) da un monello di nome Andrea Balestri, accostate a quelle della strage di piazza Fontana (1969), al primo rapimento da parte delle Brigate Rosse (1972) ai danni di Idalgo Macchiarini, si ha un’idea più concreta dello scoramento di Comencini padre, della sua solitudine quasi maniacale, della sua costante apprensione per il fallimento. Pirandello lo spiega benissimo: «Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci…» se la realtà che ci circonda è in antitesi con i nostri propositi, con le nostre convinzioni. Luigi Comencini, chiuso nel suo mondo, studiava la maniera più affascinante per portare sullo schermo la fiaba di Collodi, tra la finzione di un burattino e la realtà di un bambino, mentre in strada le BR mettevano a ferro e fuoco il «paese dei balocchi». È logico che di fronte a un contrasto tanto divergente il cineasta fosse tempestato da dubbi e perplessità sul suo operato, sulla sua vocazione. Solo il tempo gli ha dato ragione.

Questa è soltanto una delle tante pagine sentimentali che la figlia devotamente regala al padre, al quale ruba l’incarnato del film: cioè, quel Pinocchio, nato dalle mani di un falegname che ne diventa il babbo assoluto. Il personaggio di Francesca, infatti, come il burattino, non ha una mamma. Non c’è, non esiste. Soltanto valutando questa analogia fiabesca lo spettatore può sciogliersi dall’inquietudine di osservare un rapporto padre-figlia senza mai scorgere un indizio materno: è un segnale molto forte. Sappiamo che nella realtà Francesca Comencini ha tre sorelle, ma se per costoro si comprende la volontà di estrometterle dalla sceneggiatura per rendere più personale e settario lo sguardo sul passato, la cancellazione della madre potrebbe far sorgere sinistri sospetti. Per fortuna Pinocchio addolcisce l’impasse.

La regista usa la fiaba di Collodi anche per costruire l’antefatto: «Chi ti piace dei personaggi di Pinocchio?», chiede il padre. «Lucignolo», risponde la bambina, scegliendo quello che cerca la libertà, l’indipendenza dalla famiglia. Poco dopo la piccola Francesca indugia con terrore sulla pagina del disegno della bocca spalancata del pescecane, un’immagine che poi diventerà l’antro dell’inferno. Tra padre e figlia c’è grande intesa: poche parole e tanta fiducia. «Bisogna sempre ascoltare i bambini», dice Luigi al preside della scuola elementare. Sembra un’infanzia coltivata impeccabilmente quella di Francesca, invece col tempo quella fiducia si rompe. Lei, che aveva sempre detto la verità, comincia a mentire, si allontana dalla solitudine del padre per cercarne un’altra, tutta sua, che trova in una piazza (Navona) che finisce risucchiata nelle fauci del mostro marino. Comincia il dramma dell’eroina. Il dramma del fallimento. Nella vita è facile fallire, tuttavia occorre «riuscire a fallire sempre meglio», è il suggerimento del padre. Da questa frase inizia, per Francesca, una lenta risalita.

Il tempo che ci vuole è un film intimo e intenso che trasuda amore, da parte di entrambi i protagonisti, dove i silenzi e le attese, che sono le espressioni più concrete dei dolori di un padre e delle angosce di una figlia, diventano il dialogo muto più profondo e sofferto. La pellicola è un omaggio non solo a Luigi Comencini, ma anche alla storia del cinema: dai capolavori di Pabst e Rossellini, agli effetti speciali di Georges Méliès fino al magico volo di Mary Poppins.

I ruoli principali sono affidati a Romana Maggiora Vergano e Fabrizio Gifuni. La prima è certamente molto brava e sempre credibile. Per Gifuni, invece, si tratta di una prova davvero importante. Lo avevamo già molto ammirato nelle vesti di Aldo Moro, ma qui ha colto il personaggio con premurosa delicatezza e con precisione sentimentale. Ha saputo restituire un padre attraverso le sfumature delle disillusioni, le amarezze del fallimento più cocente perché la vita viene prima del cinema. (fn)
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Il tempo che ci vuole, di Francesca Comencini, con Fabrizio Gifuni (Luigi), Romana Maggiora Vergano (Francesca), Anna Mangiocavallo (Francesca a 8 anni). Regia di Francesca Comencini

Foto: Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano

 

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