Il malato immaginario, 1974 |
Roma, 15 settembre 2024
«ABBIAMO SMARRITO IL TEMPO DA DEDICARE ALLE EMOZIONI»
L’attrice, che debuttò con De Lullo, Morelli, Stoppa e Valli, mette a confronto il teatro di oggi con quello di ieri
L’ultimo impegno che Anita Bartolucci ha affrontato in palcoscenico rappresenta la chiusura di un cerchio: l’epilogo ideale. «Sì, è vero, è stata una felicità inaspettata, ma la mia carriera d’attrice non termina qui», tiene a precisare con piglio non ancora rassegnato. Il debutto – quello importante – avvenne, infatti, nel 1972 nel Così è (se vi pare) di Pirandello, che Giorgio De Lullo portò in scena con una compagine stellare: al fianco ai suoi «Giovani» c’era, infatti, anche la coppia Stoppa-Morelli, nei ruoli protagonisti. La Bartolucci, all’epoca poco più che ventenne, rivestiva i panni della Signora Sirelli. Cinquant’anni dopo, Luca De Fusco l’ha chiamata per interpretare la Signora Frola, combattuta tra l’amore di madre e l’umiltà di suocera, al fianco di Eros Pagni nella parte che fu di Romolo Valli. Una coincidenza che potrebbe essere considerata come il gran regalo della perseveranza, un dono che anche l’effimera arte del teatro riesce a offrire a chi ha percorso una carriera con passione e dedizione.
- Quando entrai in quella compagnia di giganti, ovviamente ero l’ultima arrivata. Partecipare con un ruolo minore alla preparazione della commedia è stata per me la perfetta appendice che concludeva la formazione in Accademia. Alla Silvio D’Amico ho studiato per diventare attrice, ma con De Lullo ho imparato le nozioni del mestiere. Fu un’esperienza in cui ho assimilato il rigore, l’umiltà, e soprattutto la consapevolezza di apprendere le regole del gioco più bello mondo. In quel momento, la compagnia dei Giovani era la massima aspirazione di chiunque volesse abbracciare la vita del palcoscenico. Con loro sono rimasta dieci anni. Un periodo meraviglioso.
Poi, nel 2022, è arrivata la proposta di De Fusco.
- Gli sono grata per questo regalo. Ho provato un’emozione fortissima a ricoprire il personaggio che vidi fare alla Morelli, ma anche una grande responsabilità: mi sono sentita investita da un diritto, come se il personaggio mi avesse cercata per restituirmi la bellezza di un passato di cui certamente avverto la mancanza. Appena mi sono accostata al ruolo ho avuto la sensazione di essere protetta da un angelo all’improvviso disteso al mio fianco. Era una parte che conoscevo a memoria, fin nei dettagli e nelle sfumature; con la quale mi ero formata professionalmente e le cose che si imparano da giovani non si dimenticano più. In un attimo, come una eco benigna, mi sono tornate all’orecchio le voci di tutti, che sono qualcosa di molto più profondo dei semplici ricordi. Le battute della Morelli mi hanno presa per mano e mi hanno accompagnata in quest’avventura dal primo giorno di prove fino all’ultimo sipario. D’altronde, all’epoca, l’avevo studiata per quasi due anni ogni sera. E sapevo anche le frasi di tutti gli altri: le intonazioni di Romolo Valli, di Paolo Stoppa, di Ferruccio De Ceresa, un attore troppo spesso dimenticato. Anche quelle di Rossella Falk che nel Così è (se vi pare) faceva soltanto la breve apparizione finale della Signora Ponza (“Io son colei che mi si crede”). Che momento emozionante, però!
Così è (se vi pare), 1972 |
Dalle parole di Anita Bartolucci si intuisce una palese immensa soddisfazione.
- La scorsa stagione, grazie alla Signora Frola, sono arrivata a un passo dalla vittoria del premio le Maschere per la migliore attrice protagonista. Sarebbe stata l’occasione per dedicare il riconoscimento ai miei maestri, per restituire un merito a chi mi ha dato la possibilità di conoscere un teatro che oggi non c’è più. E che sarà irripetibile.
Lo dice con rammarico.
- No, rammarico, no. Nostalgia sì. Viviamo un’epoca di grandi cambiamenti sociali e culturali, e credo sia giusto che il teatro, essendo lo specchio della vita, venga contaminato, non saprei dire se arricchito o impoverito, dalle nuove esigenze che la realtà impone, altrimenti non sarebbe teatro o, peggio, sarebbe un teatro falsato.
Ma il teatro è finzione!
- Sì, è vero, tutto è finto, ma nulla è falso.
Cos’è cambiato da allora?
- Soprattutto il modo di lavorare. L’approccio allo studio. Con De Lullo si cominciava a leggere il testo e si restava almeno quindici giorni seduti al tavolino ad approfondire insieme i ruoli per trovare le possibili intonazioni, le motivazioni che portavano alle conclusioni che il regista chiedeva. Oggi c’è una gran fretta di andare subito in piedi e immancabilmente si barcolla. Il lavoro dell’attore è anche fisico e l’impreparazione la si sente nelle gambe: le tavole del palcoscenico, in un attimo, possono diventare sabbie mobili. Si pensa a raggiungere il prodotto finale, sottovalutando un percorso impegnativo fatto di prove che sono tentativi di una creazione sempre condivisa tra attore e regista. Non a caso è il momento più affascinante e interessante del nostro lavoro.
Il valzer dei cani, 1977 |
- No. Questa è soltanto la scusa per giustificare la corsa alla realizzazione di un prodotto poco curato. Oggi si vive con l’affanno sempre, per qualunque esperienza, non soltanto teatrale, e non ci accorgiamo che la fretta spesso cancella le sensazioni. Abbiamo smarrito il tempo da dedicare alle nostre emozioni. Abbiamo aumentato le distrazioni che inevitabilmente ci allontanano dalle passioni. I personaggi in scena vivono grazie alle loro emozioni e, se noi che dobbiamo interpretarli, non abbiamo il tempo di maturare i loro sentimenti, non potremo mai restituirle al pubblico.
Sono gli insegnamenti del maestro?
- Certo! È quel che ho imparato facendo teatro. I grandi personaggi non sono troppo differenti da noi: hanno origini molto antiche e hanno bisogno del passato per prendere consistenza, ma hanno anche la necessità di vivere il presente per potersi esprimere, altrimenti rimarrebbero sepolti e dimenticati in un museo immaginario. Credere che in teatro oggi si debba rinnegare il passato è sbagliato, perché lì ci sono le nostre radici, ma perseguire ciò che non è più, forse, è anche peggio. Vedo che oggi c’è chi tende a fare a meno dello studio, della tecnica, delle regole teatrali, a vantaggio di una “verità” che spesso è soltanto approssimazione e improvvisazione. Si ricorre all’idea bizzarra, alla stranezza, oppure si tende a cadere spesso nella volgarità che fa presa su un pubblico diseducato. S’è perso il culto del bello, il gusto delle sfumature, la compiacenza delle raffinatezze che sono considerate effimere. Invece bisognerebbe insistere su questi valori affinché lo spettatore non perda il contatto con la bellezza, altrimenti la finzione scenica diventa uno strumento arido per irritare e non suadente per irretire.
Così è (se vi pare), 2022/’24 |
Poco fa nominava Stoppa, la Morelli, Valli: l’equivalente attoriale in chi lo si ritrova adesso?
- In nessuno. Tuttavia mi pare che oggi gli attori in genere siano di ottimo livello professionale, purtroppo non ci sono più le punte, mancano le voci fondamentali che indicavano la strada da perseguire: Vittorio Gassman, Carmelo Bene, Eduardo De Filippo, ma anche Alberto Lionello, Santuccio, Salerno…
… Romolo Valli, naturalmente…
- … certamente, ma anche Albertazzi, la Morelli, la Ferrati, la Cortese, fino alla Moriconi e la Melato. Il teatro aveva queste voci che erano il richiamo del pubblico. Ecco, se c’è una cosa che il teatro oggi non ha più è proprio la sua voce. Ha perduto le voci.
Si può individuare un responsabile?
- Secondo me, sì. È cambiato il sistema. Il numero degli attori è aumentato. I soldi, diminuiti. Il pubblico è completamente diverso, si è omologato alla mediocrità televisiva, e gli impresari offrono un prodotto che spesso segue un cliché alla portata della maggioranza. Nessuno più osa rischiare: si scelgono nomi che hanno già fatto breccia nelle serie tv come specchietto per le allodole. Ma è una politica controproducente, che non porta a nulla. In questo modo si tradisce lo spirito del teatro che invece nasce come luogo di cultura nel quale ci si emoziona, si riflette e forse si diventa migliori.
Dicono che hanno bisogno dei nomi altisonanti per far quadrare i conti.
- Non ci credo. I conti col teatro non sono mai tornati. Anzi, sono convinta che non debbano tornare. Bisognerebbe impegnarsi per mantenere alta la qualità del nostro mestiere, creare formazioni di lavoro dove ci si possa conoscere a fondo per stimolare la fiducia reciproca. Solo così, col tempo e con uno scambio amichevole si può arrivare a costruire insieme e “inventare quello che non è, ma che è meraviglioso che sia.”
Torniamo a Pirandello, «sempre quello stesso, sì». Ancora Così è (se vi pare) cinquant’anni dopo: non si sente la necessità di un ricambio degli autori?
- La drammaturgia italiana moderna nasce con Pirandello. Dopo di lui c’è De Filippo, poi tutti gli altri sono un po’ legati al periodo in cui hanno scritto. Ottimi autori, Brusati, Testori, Patroni Griffi, ma segnati da un’epoca. Forse solo Pasolini resiste bene all’invecchiamento, ma è anche uno scrittore difficile da rappresentare. Oggi si avverte una crisi drammaturgica assai complessa, anche per questo si ricorre spesso ai classici che toccano temi universali che ancora ci riguardano da vicino. Credo che dipenda dal fatto fondamentale che non si riesca più a trovare le parole adatte per raccontare il disagio che viviamo: senza parole non c’è teatro. Dovremmo invece riuscire a trovarle sempre le parole.
E i registi: Visconti, Strehler, Ronconi.
- Geni assoluti. Visconti l’ho sfiorato. L’ho conosciuto grazie all’amicizia che aveva con De Lullo, ma di lui ricordo soprattutto la devozione che quel gruppo aveva per il grande maestro. Per Visconti, già colpito dall’ictus, facemmo una recita straordinaria del Malato immaginario con Valli e la Giachetti e dal buio della platea del teatro Eliseo mi sentii addosso il suo sguardo attento. Era una presenza severa, ma affettuosa. Trasmetteva emozione. Con Strehler, purtroppo, non mi sono mai incontrata, ma era il più grande di tutti: ogni suo spettacolo era una magia. Invece per cinque volte sono stata diretta da Ronconi.
La dodicesima notte (1978) e La commedia della seduzione (1985) |
- Assolutamente sì. Entrambi percorrevano i sentieri di una logica, precisa e implacabile, sia della parola che del personaggio. Tuttavia De Lullo rispettava le regole, privilegiando la simbiosi tra ragione e sentimento attraverso uno studio maniacale di ogni gesto, di ogni intenzione, di ogni sguardo: tutto doveva condurre alla realizzazione di un’unica verità. Ronconi, invece, era un provocatore, sovvertiva le regole proponendo un immaginario, a volte rischioso, che spiazzava la creatività dell’attore, rivelando poi un risultato imprevedibile. Sia dell’uno che dell’altro, però, ricordo lo sguardo attento sull’attore, una dedizione che ci seguiva a ogni passo senza mai abbandonarci, anzi partecipando insieme, con un’infinita passione, alla crescita del personaggio. Adoro lavorare con i registi che amano gli attori.
E adesso?
- I registi oggi solitamente intervengono meno, restano seduti in platea, sentono poco il richiamo del palco, la necessità dell’inganno, l’orgoglio della finzione che ambisce a diventare realtà; il gioco teatrale dell’illusione. Se manca il bisogno di giocare, lo spettacolo irrimediabilmente sarà triste. Altri invece giocano troppo, esagerano soprattutto quando stravolgono insensatamente i testi, anche quelli dei grandi autori: sono vani tentativi suggeriti dalla loro stessa presunzione. In entrambi i casi, comunque, regna la confusione.
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Foto 1: Con Romolo Valli in «Il malato immaginario», regia Giorgio De Lullo (© Tommaso Le Pera)
Foto 2, 3, 4: Ancora con Valli nel «Così è (se vi pare)», regia Giorgio De Lullo (© Tommaso Le Pera)
Foto 5: «Il valzer dei cani» di L. Andreev, regia G. Patroni Griffi (© Tommaso Le Pera)
Foto 6: «Così è (se vi pare), regia Luca De Fusco (© Tommaso Le Pera)
Foto 7, 8: Con Mino Bellei e Massimo Ranieri in «La dodicesima notte», regia Giorgio De Lullo (© Tommaso Le Pera); con Lino Capolicchio ne «La commedia della seduzione», regia Luca Ronconi (© Marcello Norbert)