IN UN BAGAGLIO CARICO DI BENE, I RICORDI DEL PICCOLO MOMÒ
Il sipario si apre sulle note di Padam Padam, brano musicale portato al successo nel 1955 da Edith Piaf. Si dice che le parole furono riscritte per lei, per raccontare la sua travagliata storia d’amore con Marcel Cerdan, il pugile. La musica, a ritmo di valzer, sembra contenere allegria, ma invece è densa di nostalgia, di ricordi che riaffiorano. La prima strofa chiarisce il senso della canzone e anche la scelta di Silvio Orlando di voler introdurre il personaggio narrante di La vita davanti a sé presentato dai versi sottintesi: «Questa melodia che mi ossessiona giorno e notte / Questa melodia non riguarda il presente / Ma arriva da dove io arrivo / Ed è composta da centomila musicisti» che ovviamente sono i ricordi che risuonano nella mente del piccolo Momò. Un bambino di appena sei anni, forse dieci, forse di più, figlio di una prostituta scomparsa all’improvviso e cresciuto da Madame Rose. Momò, narrando la sua storia di orfano, in effetti, racconta la vita di Madame: una ex prostituta ebrea, scappata dai campi di concentramento e rifugiatasi a Parigi dove per vivere s’è data al mestiere più antico; quando l’età non le ha più consentito di poter lavorare con regolarità ha aperto una pensione per allevare i figli delle sue colleghe più giovani.
Momò è di origine araba, ma intorno a lui si parla soprattutto di cultura ebraica, poi c’è un cristiano francese, i vietnamiti, insomma, in casa di Madame Rose, al sesto piano di un palazzo del quartiere di Belleville (una zona parigina non proprio tranquilla) convive serenamente una piccola comunità multietnica, grazie all’affetto che Madame riserva a ciascuno di loro. La scena giocosa e fiabesca di Roberto Crea evoca il palazzo a sei piani, dove la miseria si mescola ai disagi. La particolarità che lega Momò a Madame è che lui è l’unico a non aver mai più rivisto la madre naturale. E mentre la canzone serve a esplorare la dolcezza di un dolore del passato nella mente di un bambino, le sue parole infantili svelano il desiderio innocente di essere rimproverato dalla mamma per aver rubato un uovo. Uno schiaffo potrebbe essere la felicità ritrovata, ma lui ha già imparato che la felicità è un’illusione che si nasconde nella siringa carica di eroina che ha visto usare da un amico. C’è una continua sfrenata ricerca nell’infanzia di Momò, una forte attrattiva per la conoscenza del mondo, delle persone – tutte donne – ma le delusioni sono sempre in agguato, e il suo animo sviluppa una saggezza protettiva: «Più cose si sanno e peggio è». E se a dirlo è un ragazzino di dieci anni, si può ben immaginare quanto siano profonde le ferite dell’abbandono.
Romain Gary, che firmò il romanzo La vie devant soi (1975) con lo pseudonimo Émile Ajar, ambienta i fatti nel 1970 e porta a casa di Madame Rose soltanto i figli delle guerre del momento – ecco perché ci sono anche i piccoli vietnamiti – tutti «figli di puttana», dice, come fosse un insulto al male del mondo. Gary, nato in Lituania, fu aviatore per la Francia durante la Seconda guerra mondiale e nel racconto di Momò si avverte una chiara denuncia alla belligeranza, soprattutto all’eterno conflitto ebraico-palestinese (oggi più che mai al vertice delle cronache). Secondo Gary, Momò è il prodotto della pace, il figlio dell’amore, per il quale una donna ebrea può avere un figlio arabo, ma un padre arabo non può tollerare un figlio ebreo. Il concetto di pace si estende anche ai paesi africani con la descrizione di un travestito di colore, ex campione di boxe nel suo continente, pronto a sospendere le sue attività sessuali e redditizie per soccorrere i bambini in difficoltà.
Adesso si dovrebbe scrivere di Silvio Orlando che, come attore, è bravo, ma è come non dir nulla: c’è molto di più. Orlando sceglie di portare in scena questo romanzo, adattandolo a monologo, perché lo sente suo, perché rintraccia il senso della bontà in ogni parola e la restituisce sotto forma di dolcezza, mai stucchevole, talvolta ironica, sempre innocente come quella dei bambini. Orlando riesce ad essere un bambino autentico, nonostante i capelli bianchi, nell’espressione, nello sguardo, nell’atteggiamento, senza scendere a viziosi compromessi con la recitazione, ossia senza forzature, ma raggiungendo il tempo dell’infanzia con estrema naturalezza: cosciente di portare con il racconto di Gary un bagaglio sensibile carico di amore, di affetto, di bene, quello che lui stesso pone davanti a sé come una necessità. Usa il carattere docile del napoletano, non per scivolare nella simpatia della parlata, ma per accarezzare l’idea di giocare con il dramma di un bambino rimasto senza madre. Un gioco vincente sul pubblico che viene accompagnato nel mondo triste e malinconico di Momò con l’allegria di un valzer.
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