DA ARLECCHINO A TOTÒ, LE MASCHERE DELLA RISATA
«Stasera s’è goduto». È stato il primo pensiero, sciolto in parole, appena si sono riaccese le luci della platea del Tordinona, al termine di un lungo applauso per Flavio Albanese, in versione Maestro di Storia della comicità, impegnato in una «lezione spettacolo per un pubblico curioso, dalla commedia dell’arte ai cartoni animati». Il sottotitolo chiarisce perfettamente cos’è L’oro della commedia: due ore – poco meno – di approfondimenti storici sulla forma più salubre e meno rischiosa del benessere, la risata. Dalla commedia ai cartoni, dice il cartellone seguendo la cronologia dall’antico al moderno, e invece Albanese comincia dai tempi più recenti, mostrando la sequenza finale di West and Soda, film di animazione di Bruno Bozzetto e di Attilio Giovannini, che è del 1965. È l’unico momento in cui il professor Albanese spiega come in quella scena si sviluppa la tecnica per strappare una risata: i tempi, la tensione, il paradosso della situazione. Poi la lezione diventa un esercizio di spettacolo dove il maestro si esibisce in brani famosissimi che adotta come palestra per il buonumore, e per rispolverare gradevolissimi aneddoti e interessanti curiosità.
La risata del Novecento italiano, per Albanese, si muove intorno a due capisaldi che portano i nomi di Petrolini e Totò, ma cita anche Rodolfo De Angelis, cantando un suo brano dal titolo sempreverde: Ma cos’è questa crisi. Di Ettore Petrolini se ne intuisce la modernità intellettuale nello sketch di Fortunello: sembrerebbe un poeta futurista, ma è qualcosa in più, perché ha l’ardire di prendere in giro chi all’epoca si prendeva troppo sul serio. Albanese riporta con discrezione ed eleganza versi, battute e soprattutto musicalità, ricordando che la commedia nasce da un’ode per la festa. Stacca dal mosaico del palcoscenico autentici pezzi di storia dell’allegria: dalla ricca rivista al più povero avanspettacolo, fucina dei grandi comici.
Quindi si comincia ad andare indietro nel tempo, nel secolo dominato dal teatro Sancarlino di Napoli, con Pulcinella e Sciosciammocca, alias Petito e Scarpetta, l’uno il maestro, l’altro l’allievo. Legge, dalle memorie di Scarpetta, la morte di don Antonio Petito che chiuse gli occhi dietro le quinte del suo teatro, senza poter concludere la recita che lo impegnava, La dama bianca. Riecheggia il nome di Totò per la versione cinematografica di Miseria e nobiltà. Si legge ancora un brano di Petito che scrive la sua autobiografia in un linguaggio irresistibilmente comico e Totò ritorna in bianco e nero mentre detta la lettera a Peppino. Dal cilindro del suo repertorio Albanese tira fuori una voce appena ubriaca pronta a declamare Ogn’anno, il due novembre, c’è l’usanza / per i defunti andare al Cimitero... «Fermi tutti – e fa notare – questi sono endecasillabi costruiti con la stessa accentazione metrica del verso dantesco». Allora i comici erano signori che sapevano bene come muovere la penna, che conoscevano la musica e non erano impreparati allo studio. In quel momento m’è venuto in mente Aldo Fabrizi che, da buon romano, aveva una naturale dimestichezza nell’improvvisare divertenti sonetti.
Un balzo nel passato e si raggiunge la commedia di Carlo Goldoni, autore a cui Albanese è particolarmente devoto, avendo interpretato alcuni suoi testi tra i più famosi. Oltre a leggere passi dei Mémoires, il maestro si sofferma su alcune interessanti osservazioni sulla struttura dei canovacci comici sui quali un Goldoni più maturo sentì il bisogno di distendere dialoghi e battute per tutti i personaggi, dando così inizio a un nuovo ordine recitativo. Di Goldoni si ricorda soprattutto l’Arlecchino servitore di due padroni; e mentre su un tavolino prendono consistenza le maschere degli zanni, la fotografia di Giorgio Strehler proiettata sul fondale sembra accendere i loro cuori di nuova vitalità.
Foto: Un fotogramma tratto dall’animazione di Bruno Bozzetto, «West & Soda» (1965)
