IL «DIRETTORE» CHE MOLTO AMAVA LE SUE DONNE
Ricordo emozionato del grande Maestro con musica, prosa e tanta passione
Evento speciale al Quirino. Una sola sera a inviti, anche se erano state programmate almeno due a sbigliettamento. S’appresta il quarantesimo anniversario della morte di Eduardo De Filippo (1900-1984) e il suo nome già illumina i palinsesti tv e i cartelloni teatrali. Lina Sastri, in verità, già da qualche tempo porta in giro per i palcoscenici d’Italia il suo Eduardo mio: una carrellata ricordi personali, tra musica, memorie e prosa. L’orchestra è sistemata di lato e il palcoscenico è tutto per lei che lo riempie con le sue intime nostalgie. «Maestro – così lo chiama sbucando dalla quinta da dietro un Pulcinella dipinto da Kokocinski – Ho bisogno della vostra assistenza». Ed è una richiesta verace: una dichiarazione d’amore lanciata dall’attrice all’indirizzo di una platea gremita e incantata per aver appena ascoltato la voce registrata del grande Eduardo.
La Sastri indossa un vestito bianco, che vuol essere quasi un abito da sposa, quello che l’accompagna in una passeggiata, di circa due ore, a braccetto del suo sposo prediletto: il teatro. Un luogo che per ogni attore è rappresentato da un’impronta primordiale e incancellabile. E non è difficile intuire di quale si tratti. È un suo ricordo, stretto in quel pronome possessivo del titolo: mio. Lei, tra le ultime leve del grande Maestro, vuole raccontarcelo a suo modo, con le sue poesie, i suoi personaggi, i suoi rigori e i suoi affetti. Sono soprattutto queste novità, inediti dettagli, che danno senso e valore a «Eduardo mio», spettacolo in cui poche note accennate, suonate e non cantate, diventano il sigillo di un battesimo del «mio» Padrino – «Parla più piano e vieni più vicino a me...» – «Una canzone che Eduardo amava moltissimo», avverte Lina.
Microfono in pugno, voce forte e cuore, come di consueto, sempre palpitante. Forse troppo. È l’emozione che, lei napoletana di San Lorenzo, a due passi da quel San Ferdinando dove per la prima volta incontrò il suo mentore, le scorre nelle vene ogni qual volta sale in palcoscenico. Tutti i personaggi che ha incarnato, da Annella di Portacapuana a Filumena Marturano, da Bernardina Pisa a Margherita Gautier, devono fare i conti con la passione carnale dell’interprete Lina. Ma stavolta, immergendosi tra i ricordi del Maestro, l’emozione è diversa, perché «nascere in una famiglia che ti porta a teatro sin da piccolo è un colpo di fortuna», ma dal nulla (o quasi) ritrovarsi al fianco di un mostro sacro del teatro è un colpo che lascia il segno per tutta la vita.
Comincia così il racconto: dai primi anni Settanta, quando Gennarino Palumbo l’accompagnò nel camerino del Direttore, il quale non le fece nemmeno il provino. Non c’era bisogno di sentirla: in quell’occasione non avrebbe dovuto pronunciare battute, si trattava di una comparsata. A lui occorreva una come Lina, fisico minuto, sguardo forte e acceso, che rappresentasse una ragazza del popolo protetto dal Sindaco del rione Sanità. Eduardo le sottolineò che in teatro un orecchino ha la stessa importanza di una parola. Glielo fece notare in scena, durante una replica, appena vide che, per eccessiva superficialità (come lei stessa ha confessato) non aveva indossato i pendagli alle orecchie: «E io capii che…». Era il primo insegnamento del Maestro.
Poi per lei giunse il personaggio della cameriera in Gli esami non finiscono mai, anche se – rivela – «speravo di poter essere la cantastorie», un ruolo che invece andò a «un’altra straordinaria attrice», rammenta senza rivelarne il nome (ma a noi non sfugge l’indelicatezza e lo aggiungiamo con piacere, oltre che per rigor di cronaca: Isa Danieli). E anche qui spunta l’aneddoto. «Ero in camerino all’Eliseo, al terzo piano, e mi sfogavo con una collega; dicevo di voler lasciare il teatro dialettale, che volevo andare da Strehler. Eduardo, che aveva il camerino al piano di sotto non disse nulla al momento. Pensavo che non avesse sentito. Ma, durante le prove del pomeriggio, appena entrai in scena, dopo pochi passi mi fermò: “Volete andare da Strehler? Imparavi a camminare!” E allora capii che…». Un altro insegnamento.
Per ogni esperienza c’è una curiosità, un turbamento, una commozione. Tutte malinconie che riemergono da un passato che non è mai svanito, ma sono sempre rimaste lì, vive, nell’animo di un’attrice appassionata, emotive che le bruciano le sillabe e prendono consistenza nelle note delle canzoni che si alternano ai ricordi enunciati con la sua tipica accortezza di amputare le sillabe finali; la stessa che fece sbottare Mario Ferrero, il quale, senza peli sulla lingua, apostrofò al tavolo di un ristorante: «Lina è interprete eccellente, peccato la dica in cecoslovacco!», era proprio l’anno in cui il paese si divise. Quindi ecco ‘e guagliu’ ‘e malavi’ di Guapparia, ‘a veste sculla’ di Reginella, li cera’ ross’ di Di Giacomo: insomma il repertorio classico della canzone napoletana che la Sastri fin troppo bene conosce e magnificamente ripropone da anni nei suoi recital canori. Cavalli di battaglia ai quali aggiunge anche un paio di brani di Pino Daniele: Na tazzulella ‘e cafè richiamata da qualche battuta di Pasquale Lojacono fuori al balcone, e Napul’è.
Quando si tira in ballo qualcuno che non c’è più, nomi e cognomi dei defunti vengono ricordati senza remore né timidezze, ma anzi con quell’orgoglio che allude a una elitaria frequentazione, a una collaborazione di livello; quando, invece, i compagni di lavoro sono ancora viventi, Lina preferisce glissare sull’identità. E così, come per la Danieli, anche Angelica Ippolito, figlioccia di Eduardo, resta seppellita nell’anonimato. Ma a noi non sfugge l’effetto di codesta discutibile noblesse!
Ampio spazio, quindi, a Titina e alla sua Filumena. «Sì, Filumena Marturano è stata scritta per lei», sottolinea la nostra protagonista. E con le parole della sorella di Eduardo descrive il travaglio di un’attrice che «non può dire di aver interpretato un personaggio se non lo sente nel sangue, nei pori, nella pelle, se non respira del suo respiro, se non parla con la sua voce, se non piange con le sue lacrime» e, aggiungerei, se non scandisce le sillabe finali che l’autore ha tutte scritte.
E poi ancora un’altra, la più profonda, la più attuale, legata a Napoli milionaria! «Eduardo ci ha voluto dire che la guerra semina egoismo.» E dalle guerre vere, quelle che si combattono con le armi, l’egoismo arriva fino a noi, in platea, che armati di insolenti cellulari illuminiamo l’oscurità della sala, incuranti di disturbare gli attori e i nostri vicini. Anche al Quirino l’uso spasmodico degli apparecchi elettronici tra il pubblico è diventato un inferno: lampi, flash, vibrazioni, sveglie, cicalecci sciagurati di questi ordigni maledetti, caricati a egoismo e strafottenza.
Per fortuna la musica è vincente e le note che accompagnano Uocchie de suonno nire appassiunate, ricamate sulle tipiche tonalità spagnoleggianti di Granados, riportano la serenità per ascoltare prima i lazzi di Sik-Sik e poi la macchietta che vende cravatte. Due celebri «antichità» che Eduardo proponeva negli anni precedenti al conflitto, quando aveva appena formato la sua compagnia con Titina e Peppino. «Eduardo era sempre avanti sui tempi», e lo annuncia con entusiasmo. Già all’epoca immaginava un teatro diverso: aveva conosciuto Pirandello e sentiva che il vecchio repertorio di Scarpetta, dove s’era formato, era da rinnovare. Così nacque Natale in casa Cupiello, il capolavoro, quello che lo ha accompagnato per tutta la vita. «Quando ci furono le riprese televisive a Cinecittà, Eduardo mi chiamò». E per Lina arrivò Ninuccia, la figlia di Luca Cupiello e di Concetta, alias Pupella Maggio.
Foto: Lina Sastri (© Felice De Martino)