UNA TRAGICA STORIA D’AMORE DELLA NOBILISSIMA NAPOLI
Musicati dal Maestro Panatteri due madrigali di Torquato Tasso ritrovati a Madrid nel 2017
Il mestiere di giornalista mi obbliga a dare la precedenza alla notizia più imponente che riguarda La rosa non ci ama, spettacolo teatrale che debutta giovedì 22 (fino a domenica 25) allo Lo Spazio (ore 21) del quale il maestro Alessandro Panatteri ha composto le musiche. In effetti, la particolare novità storica, pur se ruba un po’ la scena al resto, merita (come si dice in gergo) l’apertura della Terza pagina che una volta era quella dedicata alla cultura. Due composizioni in versi di Torquato Tasso, ritrovate in una biblioteca di Madrid nel 2017, sono state musicate per l’occasione dal Panatteri.
L’autore della Gerusalemme liberata, che ben conosceva la passione musicale del principe, cercava la sua collaborazione sperando di racimolare qualche soldo per risollevarsi economicamente, ma non sempre il nobiluomo rispondeva con entusiasmo alle proposte del poeta: di quei trentanove componimenti, infatti, pare ne abbia musicati soltanto due. E ha fatto benissimo Russo a inserire nella sua scrittura teatrale, dedicata a Carlo Gesualdo, simili originali gioielli che certamente impreziosiscono il testo e onorano il maestro Panatteri.
Mentre il nome del Tasso ci rimanda immediatamente indietro nel tempo, al periodo in cui tramontava il Rinascimento, quello di Carlo Gesualdo, «che nella sua musica scavalcò i tempi», ci porta nella Napoli dei viceré, quando già cominciò a riecheggiare un famoso motto che alla città diceva: «Sai quando avesti in capo la corona? / Quando regnò il casato d’Aragona». Il regale dominio aragonese ebbe inizio nel 1442 con Alfonso V e si spense nel 1496, per un losco accordo tra Luigi XII, Re di Francia, e Ferdinando il Cattolico. Ma l’antico casato, già con l’arrivo a Palazzo di don Juan de Ribagorsa d’Aragona, ritrovò il lustro che le era stato usurpato dalla veloce ventata angioina. Queste brevi notizie storiche servono a far comprendere meglio chi siano, e di quale prestigio godevano, i protagonisti di questa rosa insanguinata.
Lui, l’abbiamo detto, è don Carlo, figlio del XIV Signore di Gesualdo, conte di Conza e Principe di Venosa, nipote del cardinale decano Alfonso Gesualdo e, per parte di madre, legato al santo Carlo Borromeo. Non era né un politico né un guerriero, ma amante della musica e, come tale, era sempre alla ricerca di un paroliere che gli offrisse nuove ispirazioni. Lei era la figlia di Carlo d’Avalos d’Aragona e di Sveva Gesualdo (la zia del nostro Carlo, il musico). La quindicenne Maria andò in sposa (1575) a Federico Carafa, ma il matrimonio durò circa di tre anni: il marito morì lasciandola incinta. Dopo poco più di un anno dal lutto, i genitori la spinsero, era il 1580, tra le braccia del marchese Alfonso Gioemi, ma nel 1585 la venticinquenne Maria, rimase vedova per la seconda volta; non di due nobili guerrieri morti nelle sciagure della guerra, bensì di due uomini trovati entrambi senza vita tra le calde coltri di un letto coniugale, all’alba di notti assai focose, come testimoniarono i servitori delle rispettive case: «Mariti consumati nelle di lei braccia infuocate».
Le voci di tanta ardita passione, che bruciava in petto alla cuginetta, raggiunsero le orecchie di Carlo Gesualdo, ormai anch’egli in età da matrimonio, il quale tra un madrigale e una villanella, si convinse a sfidare il destino e impalmare l’ape regina. L’unione fu benedetta – dopo necessaria dispensa della Sacra rota – nel 1586: Carlo, 20 anni; Maria, 26. La loro alcova fu l’antico Palazzo del Duca di Torremaggiore, in piazza San Domenico, quello stesso che poco più di un secolo dopo divenne la magione del Principe di Sansevero. Gli impegni di Carlo, tra parolieri, musici e battute di caccia, portarono alla disperazione Maria, alta, bionda, sottile e con occhi di pece, la quale, in assenza del marito, spegneva le fiamme chiamando di notte Laura, l’ancella fedele. Sul comportamento «negligente» del principe la critica rosa dell’epoca – Napoli è da sempre all’avanguardia, anche negl’inciuci aristocratici – pur si divise: fu per vera disattenzione o per saggia precauzione? Carlo s’abbeverava a piccoli sorsi alla fonte del piacere per un affanno fisico o per non tirar anch’egli le cuoia? Il dilemma, ancora dopo molti secoli, è in cerca di risposte.
A questo punto, però, per capire bene i fatti che seguiranno, la storia ci avverte che la nuova congregazione dei Gesuiti che da circa cinquant’anni erano venuti a «sorvegliare» il Regno per ordine del Papa, offriva una «indulgenza carnale». Questa consisteva nell’assolvere quelle donne che, oppresse dai rigori domenicani e francescani, trovavano una maggiore comprensione nei confessori gesuiti. Se una peccatrice – d’ogni ceto sociale, beninteso, ché le creature di Dio son tutte uguali – in confessione ammetteva, dinanzi al tribunale divino, qualche strana perversione, veniva assolta con una penitenza assai blanda. La notizia del nuovo «possibilismo sensuale» si sparse in città in un attimo e i confessionali tornarono ad affollarsi di femmine di tutte le età. Ma i preti, si sa, non danno nulla pe’ senza niente. Soprattutto le donnette, le domestiche, le fantesche, trovarono nei padri confessori gesuiti, uomini comprensivi, buoni, dei quali ci si poteva fidare e a loro si poteva dir tutto, qualunque segreto. Era così che avveniva il controllo nelle case dei nobili da parte della Chiesa. Non dimentichiamo che i viceré a Napoli inaugurarono la loro reggenza sotto il trono di Ferdinando, non a caso, detto il Cattolico.
Così – per farla breve – quando i sospetti caddero sulla coppia adultera, con un paio di confessioni mirate si ottennero le prove della loro tresca, e gli amanti furono scoperti, sorpresi e barbaramente uccisi. Lei era Maria, e lui Fabrizio Carafa, duca d’Andria. I due si incontrarono a un ricevimento a Palazzo, quando il Viceré, Juan de Zuniga, volle conoscere i Grandi del Regno di Napoli. Il Duca andò solo – sua moglie preferì rimanere a casa a dir le orazioni (chissà!) – mentre Maria accompagnò il marito. Quando si aprirono le danze, le loro mani si sfiorarono più volte, gli occhi si incrociarono e i palpiti procurarono rossori. Nelle loro rispettive posizioni aristocratiche e coniugali, era già un buon motivo per poter osare e spingersi oltre.
Seguirono una corsa in carrozza a Mergellina e, infine, il primo appuntamento nella villa di don Garzia de Toledo. Da quel momento in entrambi s’accese «la consapevolezza che il peccato commesso non poteva avere altra fine che la morte». Eppure la sfidarono: volevano rivedersi, dovevano rivedersi, ma per Maria, lasciare il Palazzo, significava dare troppo nell’occhio. Maria scrisse un biglietto che Laura consegnò notte tempo nelle mani di Fabrizio: erano le indicazioni per incontrarsi in casa di lei, nello stesso letto dove Gesualdo soleva prenderla, ancora con fervente passione, benché con qualche oculata prudenza. Poi la fine violenta: coltellate, sangue e morte per entrambi.
La conclusione ce la racconteranno (da giovedì a domenica allo Spazio) Cloris Brosca e Gianni De Feo, protagonisti in palcoscenico dell’antica tragedia di una nobilissima Napoli. (fn)
Foto © Sabrina Cirillo