17 febbraio 2024

«Assassinio nella cattedrale» con Moni Ovadia


Roma, Teatro Quirino
16 febbraio 2024

L’ASSASSINIO DI ELIOT

Quando nel 1935 T. S. Eliot, poeta, sentì la necessità di scrivere Assassinio nella cattedrale già studiava da anni profondamente la materia religiosa confrontandola, da erudito, con la storia, osservandone l’evoluzione dei fatti, da intellettuale, secondo i clamorosi cambiamenti politici che stavano avvenendo in tutta Europa. Italia e Germania erano già da tempo sotto lo schiaffo della dittatura, anche la Spagna a breve le avrebbe seguite, per non parlare dell’Unione Sovietica stretta nella morsa staliniana. Nel 1935, inoltre, furono emanate le Leggi di Norimberga e le Leggi raziali, insomma fu l’anno in cui Hitler stava organizzando il secondo conflitto mondiale.

Eliot, però, non era un uomo politico né uno stratega, ma un poeta, un erudito, un intellettuale e la sua strategia era la scrittura. Nella sua opera, infatti, è depositato il principio del cosiddetto modernismo. Parola che in apparenza contrasta – e nemmeno poco – con il periodo medievale in cui ambienta la vicenda dell’arcivescovo Thomas Beckett, vassallo del re, traditore del re. Ancora, c’è da intendere bene che nella vita del poeta – un decennio prima – si sviluppò un forte senso cristiano che lo indusse ad aver fede nei principi cattolici, dove la figura del papa divenne simbolo di religiosità. E prima di cimentarsi nella stesura del dramma (quasi tutto in versi) scrisse un saggio dal titolo Religione e letteratura nel quale dice: «… la critica letteraria dovrebbe essere integrata da una critica che parta da un preciso assunto etico e teologico».

Teatralmente parlando, questa frase, sembra quasi un monito morale nei confronti di chi si appresta a mettere in scena la sua opera. Non è forse un regista il primo critico di un drammaturgo? Quindi sembra che Eliot quasi voglia suggerirgli di non alterarne la composizione (siamo in poesia e non in prosa), quasi desideri preoccuparsi dell’eleganza, con cui verrà trattata la sua creazione, che è frutto di una sofferenza. Lo dichiara nel testo: «agire è soffrire». D’altronde chi potrebbe mai contestare che uno scrittore agisce scrivendo? Egli, attraverso un tessuto di versi tra i più alti della poesia del Novecento, ha condotto la sua elegante battaglia nel nome della fede cattolica contro i baroni, che sono, sì, le tentazioni, ma anche i veri e propri nemici della Chiesa temporale. E al contempo artefici e vittime di un potere sovrano.

«Ma venga al fatto, signor critico, venga al fatto e non si perda in chiacchiere», direbbe a questo punto l’unico lettore incuriosito. Purtroppo il fatto a cui si è assistito è l’esatto contrario delle raccomandazioni dell’autore. Dell’opera di Eliot abbiamo ascoltato un riassunto talmente stringato e ortodosso che nulla più di poetico, né di religioso, né di etico s’è riuscito a gustare. Sparita l’eleganza del verso, dimenticata la matrice della fede (che è differente dalla religione), ogni parola di quest’Assassinio in versione Bignami è concentrata sul tema del potere e dell’ambizione del baronato. La cui ostilità passa, però, in secondo piano rispetto alla figura dei sicari che essi pure rappresentano.

L’arcivescovo, da difensore della pace, diventa un sobillatore delle folle: Ovadia, infatti, si rivolge sempre al pubblico senza curarsi troppo di chi gli parla; forse non si rende conto ma i suoi toni tendono all’urlo, come molti altri in scena, tanto che non si capisce per quale motivo gli attori siano provvisti dei soliti fastidiosi microfoni che, oltre ad alterarne il trucco ne amplificano i difetti. In quest’occasione, proprio dei microfoni, non se ne sarebbe avvertita la mancanza. È triste doverlo sottolineare, ma qualche vuoto di memoria ha sorpreso molti spettatori; gli accavallamenti delle battute pure; anche all’occhio più esperto non sono sfuggiti i tempi fuori sincrono degli ingressi in scena. Anche la barriera luminosa in ribalta è parsa un ostacolo a cui si sarebbe potuto ovviare facilmente (bastava frammentarla).

Insomma, il povero Eliot che discretamente raccomandava, consigliava «un preciso assunto etico» è stato l’unico ad essere davvero tradito e «assassinato» da un’improvvisazione scenica dal sapore amatoriale. La verità è che dietro una simile recita – che, si sa bene, è difficile nei dettagli – si avverte un’assoluta mancanza di prove in palcoscenico. Naturalmente accetto di essere smentito. Degli attori in particolare non si può dir nulla, perché, come al solito, i loro nomi in locandina non sono accompagnati dai personaggi. Mi sarebbe piaciuto citarne un paio più convincenti e, sono sicuro, che a costoro una lode, dopo tanto disonore, avrebbe certamente sollevato lo spirito. (fn)
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Assassinio nella cattedrale di T. S. Eliot, con Moni Ovadia, Marianella Bargilli, Agostino Zumbo, Emanuela Trovato, Viola Lucio, Daniele Gonciaruk, Francesco Attardi, Mario Opinato, Pietro Barbaro, Plinio Milazzo. Scene, Salvo Manciagli. Regia Guglielmo Ferro

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