29 febbraio 2024

«Anna Cappelli» di Annibale Ruccello


28 febbraio 2024

La bambola di Giada, Ossia L’Ovvia naturalezza della follia

Diceva bene un regista e maestro d’accademia quando indicava nel monologo la forma di teatro più difficile da interpretare per un attore. Tutti pensano sia facile. Tutti ne elogiano la semplicità dell’allestimento. Tutti (gli interessati) ne esaltano i vantaggi economici. Eppure, quando sulla scena ci sono due, tre o quattro, dieci attori, ciascuno è sempre pronto a sorreggere l’altro, ad aiutarlo in caso di défaillance. Reggere la scena in solitaria è tutta un’altra prova. Occorre una preparazione e una concentrazione certamente non consuete. Sono pochissimi coloro che, davanti al pubblico, riescono a mantenere per un’ora di fila ritmi e toni di recitazione senza sbavature e senza cedimenti. Giada Prandi, caschetto biondo, viso incontaminato, sguardo innocente, è riuscita a tener testa alla galoppata trascritta da Annibale Ruccello per un personaggio apparentemente quieto e dal nome altrettanto morigerato: Anna Cappelli, impiegata al municipio di Latina.

Elegante senza esagerare, misurata nelle confidenze, delicata nelle osservazioni: così si presenta Anna, donna senza troppe pretese, ma con una serie di paranoie nascoste, derivate da rapporti familiari dove è cresciuta in quel di Orvieto. Ora s’è trasferita nel capoluogo pontino e vive in una casetta che divide con la signora Rosa che la tartassa con manie da insopportabile precisina. In ufficio fa amicizia con il ragionier Tonino Scarpa: tra i due nasce un’intesa che in breve tempo si trasforma in un rapporto sentimentale che porterà Anna ad andare a convivere con l’uomo.

La buona riuscita della messa in scena, oltre all’esperienza della Prandi, è dovuta alla intelligente regia di Renato Chiocca che ha ideato una semplice gabbia stilizzata dove sono rinchiuse tutte le fobie e le ossessioni di Anna, a cominciare dal suo desiderio d’essere bambola, una velleità della quale sembra aver paura. Anche il rispetto che, suo malgrado, mantiene nei confronti della signora Rosa, si ripercuotono sulle sue fragilità. Anna non esce mai fuori dalla gabbia, nella quale trova sia protezione che angoscia: l’educazione glielo impone. È il male delle persone perbene, lo stesso che all’improvviso esplode per un nonnulla e le fa apparire iraconde e ingiuste.

Ciò accade quando, messo fuori finalmente il piede dalla gabbia, conosce meglio Tonino e in lui trova un sostegno. Scapolo e tranquillo, vive in un appartamento di dodici stanze, con un’anziana cameriera. Il colpo di fulmine arriva appena l’occhio di Anna ammira un rubino incastonato in un anello al dito di cui nota perfino la perfezione dell’unghia. La leggerezza della libertà la rende euforica, ma la convivenza con il nuovo compagno costringe Anna a sentirsi chiusa nuovamente in gabbia, malgrado scopra di non essere più una bambola, ma un’affascinante donna in sottoveste.

C’è ancora un’occasione (raffinata, per di più) in cui riesce a riemergere dalla claustrofobia delle sue ansie, ed è quando, sfilandosi le mutandine, percepisce di avere – con quel gesto suadente – catturato l’uomo in pugno e di poter ottenere da lui la soluzione momentanea alla sua galoppante paranoia che accompagna l’attrice in un crescendo recitativo fino all’inatteso folle epilogo.

La felice rappresentazione del monologo di Ruccello è il risultato di una evidente intesa collaborativa tra una regia poco invadente e un’interpretazione limpida e serrata. Il personaggio soffre di una patologia nervosa che cresce con precisione quasi matematica per raggiungere l’esplosione finale, alla quale la Prandi accede con l’ovvia naturalezza della follia. (fn)
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Anna Cappelli di Annibale Ruccello. Con Giada Prandi. Scena, Massimo Palumbo. Costumi Anna Coluccia. Luci, Gianluca Cappelletti. Musiche, Stefano Switala. Regia, Renato Chiocca

Foto © Umbi Meschini


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