18 febbraio 2024

«L’albergo dei poveri», Gor’kij/Popolizio

Roma, Teatro Argentina,
il 17 febbraio 2024 (fino al 3 marzo)

INCUTE SOGGEZIONE IL «MOSÈ» DI POPOLIZIO

Il terzo giorno resuscitò: il teatro naturalmente. Dopo la claudicante esperienza di giovedì alla Sala Umberto e l’altra disastrosa, venerdì al Quirino, sabato all’Argentina, finalmente, abbiamo assistito a una rappresentazione che ci ha regalato circa due ore di spettacolo di ottima fattura. L’idea di regia era rispettosa del testo; luci, scene, costumi e recitazione facevano parte di un disegno omogeneo; gli attori sapevano la parte a memoria, osservando tempi e intonazioni. Insomma, un teatro da Serie A. E se pure occorre fare qualche appunto, chiariamo subito che il livello è quello che si attiene rigorosamente all’antico codice dell’educazione teatrale.

Massimo Popolizio compie un atto eroico, riproponendo il testo che Giorgio Strehler scelse per inaugurare nel 1947 il Piccolo Teatro di Milano. Un testo che, nella tradizione sentimentale del nostro palcoscenico, «è» di Strehler, come allo stesso appartiene, ormai, il goldoniano «Arlecchino, servitore di due padroni». Da allora soltanto lui, il regista di Via Rovello, lo riprese nel novembre del 1970 per un nuovo allestimento al Metastasio di Prato, per avviare l’attività del Teatro regionale toscano, optando per un titolo che Gorki diede alla sua opera nel periodo della lavorazione: non più «L’albergo dei poveri», ma «Il fondo», sinonimo di quei bassifondi che ospitano i relitti dell’umanità. Coraggiosa, e forse più, la scelta di Popolizio, regista di scuola ronconiana, nel voler rispolverare un’opera che in Italia porta la cifra di Giorgio Strehler.

«Nessuno l’ha fatto prima», ammette Popolizio in una conversazione trascritta e pubblicata sul programma di sala da Sergio Lo Gatto, «Quelli che hanno visto lo spettacolo del ’47, non ci sono più». «E rimangono pochi testimoni anche della ripresa di Prato», aggiunge Emanuele Trevi, autore della nuova riduzione teatrale. Comunque, al di là di ogni timore, o rispetto che sia, è giusto non dimenticare testi che hanno fatto la storia del teatro. E bene ha fatto Popolizio a riproporlo.

La maestosità della scena di Marco Rossi e Francesca Sgariboldi ricorda molto le atmosfere di Ronconi, piuttosto che le leggerezze di Strehler; ma sarebbe, a questo punto un errore, oltre che dichiarare un atteggiamento irriguardoso, continuare a ripescare nel passato (o forse rimpiangere) un teatro che esiste soltanto nella memoria di pochi. Tra le tante difficoltà che Popolizio e Trevi hanno dovuto affrontare c’è sicuramene quella di ridurre il testo per andare incontro alle esigenze degli spettatori diventati ormai troppo poco pazienti. Un lavoro d’intaglio certosino, quello di Emanuele Trevi, che tuttavia ha causato qualche scompiglio nella fluidità della storia e soprattutto nella crescita emotiva dei personaggi. La vicenda appare continuamente frazionata. Più che scivolare lungo un pendio, sembra scendere le scale a piedi uniti, come se tra un intervento e l’altro ci fosse una sospensione che naturalmente blocca la fioritura delle emozioni. Si procede per scene singole, assemblate, sì, con grande eleganza e rigore, a danno, però, della vicenda centrale: l’amore di Pepel per Natascia e la gelosia di Vasilisa. Storia che viene interrotta (da altre storie), quasi dimenticata e più volte ripresa.

Malgrado gli attori stiano quasi sempre tutti in scena (una scena molto profonda), i dialoghi sovente avvengono in ribalta, come fossero degli «a parte». Si avverte la mancanza di un coinvolgimento generale: il Principe, come il pellicciaio, Klešc e la ragazza (e un po’ tutti), pronunciata la battuta tornano nelle retrovie o escono di scena.  C’è tanta regia, c’è una meticolosa attenzione nei movimenti, ma manca il sentimento ché non ha mai il tempo di maturare per riuscire a coinvolgere pienamente la platea. Per assurdo, i cambiamenti di scena, a cui tutti partecipano simultaneamente, come un coro di ombre mute, rappresentano, nei tempi e nelle forme, l’anima del dramma.

Gli attori sono tutti bravi: nessuno escluso. Ognuno ha il suo personaggio ben chiaro, e ciascuno ne restituisce egregiamente il carattere, le sembianze, la disperazione, le dostoevskiane umiliazioni che seguono le offese, ma come quell’attore «non trova più il varco del sipario» (battuta del copione), così quei personaggi, ricamati con perizia, non hanno il tempo di spingere fino in fondo il dramma giù in platea. Forse l’unico che ha deformato la fisionomia del suo personaggio scritto è proprio Popolizio, il quale, con quel lungo fosco barbone e quel solido bastone (entrambi di proporzioni bibliche), più che un pellegrino sembra il Mosè risorto dall’Esodo.

«Di Dio non credo niente, ma mi limito a credere in Dio», dice Luka, incutendo soggezione nell’ascoltatore. La presenza di fede in Dio, nel testo, è talmente forte che si è portati con naturalezza a far paragoni con i personaggi delle sacre scritture. Poi si parla anche del «paese dei giusti» come fosse il paradiso: insomma, è un testo che certamente mette i poveri nella condizione necessaria di dover credere alle parole di un patriarca – giunto lì, all’improvviso, in quel dormitorio malfamato – che li conduca sulla retta via, anziché ascoltare il genuino consiglio di un semplice pellegrino.

Nella nostra cultura letteraria, infatti, pellegrino è San Francesco, pellegrino è Dante accanto al maestro Virgilio, pellegrino è Romeo schiantato dall’amore, figure fisicamente esili, socialmente minoritarie sempre poetiche: Popolizio dà tutt’altra impressione. In lui c’è la forza, la potenza, la sicurezza, la determinazione: valori che contribuiscono a ghiacciare i sentimenti, a bloccarli, piuttosto che a scioglierli. (fn)

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L’albergo dei poveri uno spettacolo di Massimo Popolizio tratto dall’opera di Maksim Gor’kij, riduzione teatrale di Emanuele Trevi. Con Massimo Popolizio (Luka, il pellegrino), Sandra Toffolatti (Vasilisa, moglie di Kostylev), Raffaele Esposito (Pepel), Michele Nani (Klešc, il fabbro), Giovanni Battaglia (il Barone), Aldo Ottobrino (Satin, il baro), Giampiero Cicciò (Bubnov, il pellicciaio), Francesco Giordano (Kostylev, proprietario del dormitorio), Martin Chishimba (il Principe), Silvia Pietta (Kvasnija, ex prostituta), Gabriele Brunelli (Aleška), Diamara Ferrero (Natasha, sorella di Vasilisa), Marco Mavaracchio (Medvedev, la guardia), Luca Carbone (l’Attore), Carolina Ellero (Nastija), Zoe Zolferino (Anna, Moglie di Klešc). Scene, Marco Rossi e Francesca Sgariboldi. Costumi, Gianluca Sbicca. Luci, Luigi Biondi. Disegno del suono, Alessandro Saviozzi. Regia, Massimo Popolizio. Produzione, Teatro di Roma (Teatro Nazionale), Piccolo Teatro di Milano (Teatro d’Europa)

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