LE SONORITÀ PROUSTIANE DI LUCA LONGOBARDI
In un angolo nascosto della Capitale, accanto alle magnifiche Mura Alessandrine, Vittoria Faro ci accoglie nella sua Recherche: uno spazio alternativo abbigliato al soffitto di bianchi tendaggi che formano onde, sotto le quali una soffusa luminosità e molte candele spostano all’improvviso la percezione caotica della città mille miglia lontana. Nella grande sala che ospita le performance salta all’occhio uno stuolo di materassi e cuscini distesi in terra, nelle prime file; più dietro le sedie disposte in ordine; mezzi manichini da ciel piovuti; una sagoma umana in fil di ferro che s’arrampica a un traliccio; e un vecchio pianoforte, che pure ha una parte in questa storia.
Recherche è certamente un nome indicativo per un luogo artistico. Indica un locale di ricerca, di sperimentazione, ma anche di improvvisazioni. Di qualità, naturalmente, perché qui sia gli artisti che gli spettacoli vengono selezionati prima di essere proposti al pubblico. Recherche, alla francese, è anche un chiaro riferimento letterario che si lascia scoprire a poco a poco, grazie a quelle coincidenze che gli artisti riescono spesso a far capitare, per caso o per finto caso. Un’atmosfera così calda e candida predispone l’animo a un insidioso benessere intellettuale: a Vittoria, infatti, piace il viaggio onirico, e furbescamente protegge i suoi sogni sotto un cappello a falda larga. Non si sa mai!
Quando tutti gli ospiti hanno un bicchiere di vino in mano, Luca Longobardi si accosta alla consolle dove gli strumenti sono solo piccole tastiere, o pulsantiere, nascoste da un groviglio di fili: è il momento di Palindroma. Un’altra indicazione che ci fa capire che non ci si schioda dall’arte dello scrivere! Eppure l’artista è un musicista che non ha alcuna intenzione di intrattenerci con le parole. Infatti osserva il vecchio pianoforte con lo sguardo paterno dell’accordatore, e da questo reperto classico e antico tira fuori alcuni suoni stravaganti che danno inizio al suo concerto solista e «sperimentale che si sviluppa – mi affido alla sintesi dell’esperto – attraverso un intricato intreccio sonoro e che riflette simmetricamente il percorso, creando una esperienza auditiva preannunciata.»
Il linguaggio della spiegazione tecnica obbiettivamente è tosto, ma – vi assicuro – le sonorità sono dolcissime, delicatissime e davvero oniriche. La strumentazione di Longobardi, in effetti, non si suona (o si suona poco); più precisamente si modella su un tema portante per intraprendere la via dell’improvvisazione palindroma: cioè, sonorità che vanno e che ritornano sugli stessi suoni, nell’arco di un tempo prestabilito. Esattamente come quelle esperienze vissute che all’improvviso tornano alla mente nel ricordo di un tempo perduto, du temps perdu. Proprio come il pianoforte usato all’inizio, e subito dimenticato, che in chiusura torna a rivivere con l’ultima nota, prima dell’applauso di un pubblico silenziosissimo, estasiato dalla magia di certi suoni che sembrano essere davvero arrivati da un luogo senza tempo.
Foto © Fausto Nicolini