EVVIVA, LE MASCHERE DEL BUONUMORE
Lunga vita al teatro e al suo linguaggio se, in un momento storico come questo, dove regna la più caparbia e deliberata incomprensione tra i popoli confinanti e nelle singole case, il gruppo tedesco Familie Flöz, dal palcoscenico della Sala Umberto (purtroppo soltanto fino a domenica), lancia un forte messaggio di comprensione, d’intesa e di armonia. Basta davvero poco per capirsi, per spiegarsi l’un l’altro; non occorre neanche parlare, visto che loro prediligono un teatro di figura, cioè senza parola; e forse non c’è bisogno nemmeno di un’espressione mobile del viso, visto che preferiscono ricoprire il volto con le maschere. C’è troppo poco teatro a questo mondo e molta confusione che genera discordia. Invece, come accadeva nei lontani cortometraggi delle vecchie comiche di Larry Semon, di Charlot, di Stanlio e Ollio, è appena sufficiente una piccola storiella e tanta fantasia per riscoprire, nel silenzio della parola, il linguaggio dell’umorismo, quello che tutti riconoscono quale espressione di pace universale.
Il modo di far spettacolo dei Familie Flöz è essenzialmente quello di creare in scena situazioni paradossali o grottesche che un approfondito studio sulla gestualità del corpo e un’attenta analisi dei tempi di reazione di ciascun attore tramutano in irresistibili gag comiche. Più che portare avanti la storia di un canovaccio, il lavoro degli autori (sono sette: Sebastian Kautz, Anna Kistel, Thomas Rascher, Frederik Rohn, Hajo Schüler, Michael Vogel, Nicolas Witte) si concentra sulle possibilità fisiche dei personaggi. Il processo di sperimentazione, alla fine, viene realizzato tramite il linguaggio delle maschere che amplificano sentimenti e imbarazzi coinvolgendo maggiormente il pubblico. Un prodigio teatrale che affonda le radici in tempi molto antichi, ma che, in questa rielaborazione, risente soprattutto delle influenze della nostra Commedia dell’arte. Proprio come quelle del XVI secolo, anche le maschere realizzate da Thomas Rascher e Hajo Schüler hanno la necessità di dover interagire col pubblico: che sia uno sguardo, un gesto, un sostegno morale. Le maschere vivono solo davanti al pubblico (non sono né fissate nell’eternità di un libro, come i personaggi; e non possono neanche godere della momentanea libertà dell’attore): non a caso qualcuno disse che la maschera, per il materiale drammatico che contiene, è lo specchio del pubblico.
Gli attori che danno vita a Hotel Paradiso sono solo quattro (Marina Rodriguez Llorente, Frederik Rohn, Nicolas Witte, Sebastian Kautz), ma i personaggi che si alternano sul palco sono almeno una dozzina, forse più. Tutti partecipano alla strana vitalità di un albergo di montagna sul quale al principio brillano quattro stelle, anche se le apparenze sono ben diverse. In alcuni momenti l’atmosfera nella hall sembra ricordare quella di Arsenico e vecchi merletti, ma soffermarsi sulla trama, onestamente non avrebbe senso. Tuttavia la vicenda, certamente desueta, che si svolge tra le vette delle Alpi, all’improvviso si macchia di noir: non mancano i cadaveri, i ladri, i dispetti e i grandi amori.
Foto © Michael Vogel