DI OSCAR WILDE NON RESTA NIENT’ALTRO CHE CENERE
Se il De Profundis è una sorta di monologo drammatico che interroga costantemente il silenzio a protezione del sentimento d’amore, e dalla scoperta del dolore procede alla scoperta della consolazione, l’assemblage (come lo definì Romolo Valli che lo portò in scena per la prima volta in Italia nel 1979, con la regia di Giorgio De Lullo) dell’americano John Gay, in memoria di Oscar Wilde, è, della lunga lettera scritta in carcere, la trascrizione riflessa in uno specchio: dalla leggerezza delle spiritosissime ed innocue boutade, infatti, giunge all’esemplificazione della crudeltà del sistema carcerario e alla rappresentazione del dolore estremo, quello che precede la morte. Divagazioni e delizie è il testo di una pubblica confessione, durante la quale l’intima coscienza di un uomo, incapace di portar rancore, interroga le sue debolezze: è l’ammissione spietata di una delle personalità più geniali dell’era moderna, colui che fu in grado di scandalizzare un’epoca con una sola frase, e che ora riconosce il fallimento della sua brillante intelligenza, constata di essere caduto in solitudine per il tradimento delle amicizie, confessa il tracollo finanziario, la malattia, e poi «… mia moglie è morta, mia madre è morta, la mia opera è finita». Di Oscar Wilde non resta che «Cenere. Nient’altro che cenere».
Ecco perché John Gay, immaginando l’autore del Ventaglio di Lady Windermere ormai esule a Parigi, dopo due anni di carcere, costretto da una sciagurata indigenza a dare spettacolo di sé affittando piccole sale teatrali, preferisce nasconderlo dietro l’identità di tal Sebastian Melmoth: «Non è che navighi nell’oro – dice Oscar agli spettatori – lo avrete capito che è per questo che ci siamo riuniti qui, stasera». Meglio uno pseudonimo, dunque! Da una parte un residuo pudore personale, dall’altro la riluttanza a voler continuare a dare scandalo: la soluzione è affiggere manifesti con un nome qualunque, basta che non sia Oscar Wilde. Perché di Oscar Wilde non resta che «Cenere. Nient’altro che cenere».
Sappiamo bene che oggi locandine e manifesti sono diventati superflui. Considerati un’inutile spesa, i manifesti non esistono più. Le locandine vengono ordinate in tiratura limitata, come i libri preziosi, e nel foyer del Parioli ne ho contate due soltanto, assai discrete, con il nome di Sebastian Melmoth stampato a caratteri minuscoli. Siccome, in questo caso, il manifesto dello spettacolo viene citato nel testo (come fosse una precisa indicazione registica), perché non rendere un po’ più visibile un richiamo scenico dichiarato dall’autore? Se non fosse stato importante, John Gay non l’avrebbe previsto: infatti, quando l’attore pronuncia in apertura la battuta «Ora voi vi chiederete chi è questo signore annunciato come Sebastian Melmoth…», nessuno sapeva chi fosse codesto Carneade, tranne pochi eletti. Ovviamente Sebastian Melmoth non è un richiamo pubblicitario, ma è un personaggio che fa parte dello spettacolo, quindi della regia, anche se si esibisce in silenzio nel foyer soltanto firmando un manifesto. Perché, di Oscar Wilde non resta che «Cenere. Nient’altro che cenere».
Questo particolare, apparentemente innocuo, denuncia purtroppo un approccio eccessivamente timido, insicuro, dell’attore rispetto al testo. Lo si intuisce dall’inizio: l’agitazione fuori scena che precede la presentazione del personaggio è fiacca, quasi inesistente, e invece dovrebbe essere più che vivace, affinché il pubblico comprenda bene il trambusto. Qualunque cosa che, da copione, accada in quinta deve comunque riempire la scena, altrimenti diventa un vuoto che genera una distrazione in platea: il risultato – matematico – è stato che, quando il protagonista ha fatto il suo ingresso, l’applauso di sortita, non è partito (ed era il pubblico della prima!). Un ingresso in sordina pregiudica l’intero spettacolo, sia sul palcoscenico che in platea. Così di Oscar Wilde non resta che «Cenere. Nient’altro che cenere».
Daniele Pecci non è un cattivo attore, ma temo si sia lasciato schiacciare da un personaggio troppo ingombrante che sapeva cesellare una conversazione con l’abilità di un Benvenuto Cellini su una scultura, sapeva ricamare arguzie con la semplicità di un Casanova con il gentil sesso. Qualche insicurezza di troppo, invece, ha attutito l’ironia delle battute di spirito, ha rallentato i ritmi frizzanti, quelli altalenanti. Tutto l’insieme ha preso il colore di una narrazione. C’era una volta Oscar Wilde, sembra averci voluto raccontare Pecci, mentre invece doveva essere Oscar Wilde, senza descriverlo. Anche la gestualità è parsa una imitazione, un tentativo di imitazione che spesso ha aggiunto un temperamento drammatico laddove non ci sarebbe dovuto essere. Cosicché di Oscar Wilde non resta che «Cenere. Nient’altro che cenere».
____________________
Divagazioni e delizie. Una serata con Sebastian Melmoth a Parigi il 28 novembre 1899, di John Gay. Traduzione e regia di Daniele Pecci. Regista assistente, Raffaele Latagliata. Con Daniele Pecci (Sebastian Melmoth alias Oscar Wilde) e Alessandro Sevi (Alphonse, il macchinista). Costumi, Alessandro Lai. Musiche originali, Patrizio Maria D’Artista. Al teatro Parioli, fino al 22 dicembre
Foto: Daniele Pecci (© Tommaso Le Pera)